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III DOMENICA DI AVVENTO (ANNO A)

Omelia (11-12-2022)
don Michele Cerutti

Questa notte non è più notte davanti a te, il buio come luce risplende

Se rileggiamo la nostra vita inevitabilmente abbiamo attraversato momenti che ci hanno portato a gioire perché abbiamo toccato con mano la grandezza di Dio e momenti invece difficili in cui siamo stati attraversati da quella inevitabile tristezza perché quel Dio che abbiamo sentito vicino si percepisce distante.

Alla luce del brano evangelico cerco di sottoporre al caleidoscopio la mia esistenza e chiedo la grazia di poter aiutare altri a leggere la propria.

Non vi nascondo che i momenti di dubbio li ho attraversati, li attraverso e li attraverserò.
Il Battista lo aveva annunciato il Cristo e invitava le folle a prepararsi all'arrivo del Messia e non solo lo aveva indicato come l'Agnello che toglie i peccati del mondo e lo aveva battezzato nel fiume Giordano, dove è testimone della teofania in cui il Padre irrompe e indica in Gesù il figlio prediletto.

Luca ci dice che già nel grembo di Elisabetta, nella cornice della Visitazione, Giovanni aveva esultato.

Tutto faceva pensare che fosse a posto per il Precursore. Poi il diavolo entra nella vita a rovinare i piani e quella volpe di Erode fa arrestare Giovanni perché è stanco di sentire una predicazione che lo scredita davanti al fratello e mette in crisi la sua coscienza perché come ci dice il Vangelo quel Re aveva una relazione con la moglie di Filippo.

Nel Macheronte, la fortezza dove il Battista è rinchiuso, inizia per il Precursore il tempo della notte.

"Sei tu quello che deve venire? O dobbiamo aspettarne un altro?".

Non è un caso isolato nel Vangelo. Sappiamo tutti come nel giorno di Pasqua due discepoli sconvolti di quello che hanno visto a Gerusalemme durante la passione e sorpresi del discorso delle donne che hanno trovato la tomba vuota lasciano la città per dirigersi con sguardo basso verso un villaggio sconosciuto.

Come dissipare le ombre che attraversano la nostra vita?

Il Vangelo ci offre la chiave invitandoci a non fuggire, ma farci aiutare a ritrovare la luce.
Il Battista chiede aiuto a quei discepoli che prima erano stati con lui e poi avevano su suo suggerimento seguito Gesù e li invia a domandare: "Sei tu quello che deve venire? O dobbiamo aspettarne un altro?".

Solo all'interno di una relazione comunitaria che ci supporta nel dialogo con Gesù troviamo le risposte ai nostri interrogativi.

Se ci tendiamo a chiudere cerchiamo le risposte che ci conducono a un vicolo cieco e ci impediscono di vedere la luce.

La forza del Battista in questo brano esce fuori e si dimostra ancora una volta uomo di fede.

Perché avere fede non vuol dire non essere attraversati dal dubbio, ma cercare risposte nel momento di difficoltà cercando quell'aiuto dei fratelli per condurci di nuovo a Lui.

Quante volte girando nelle camere dei malati le domande di senso affiorano con la preoccupazione che l'interrogarsi sia perdere la fede e quindi peccare.

Il peccato affiora solo se quel dubbio non lo facciamo emergere e lo teniamo stretto e non lo condividiamo con coloro che camminano con noi.

Perché il diavolo vuole questo impedirci di parlare tra noi credenti di questione di fede e ci chiude per disaffezionarsi a Dio.

I discepoli di Emmaus sono sconvolti lasciano Gerusalemme, ma si confidano a quel tale che si è fatto vicino e che non avevano riconosciuto essere Gesù se non dopo averlo visto spezzare il pane.

Tutti esempi per dirci che il Signore non gode nel vederci in mezzo alle notti della nostra vita, queste fanno parte della nostra realtà di creature, ma ci offre i mezzi per rischiarare le tenebre e tra questi la fraternità, ovvero l'aprirsi in una corretta confidenza gli uni con gli altri.

Ci conforta sapere che queste notti hanno caratterizzato la vita dei Santi come il Battista, ma se passiamo in rassegna quelli conosciuti, molti, più di quanto possiamo pensare, hanno attraversato il dubbio.

Madre Teresa di Calcutta sente una solitudine impressionante, che sembra far vacillare persino la sua fede: "Signore mio Dio, chi sono io perché Tu mi abbandoni? [...]. Chiamo, mi aggrappo, amo però nessuno mi risponde, nessuno a cui afferrarmi, no, nessuno. Sola, dov'è la mia fede? Persino nel più profondo non c'è nulla, eccetto vuoto e oscurità, mio Dio". Ma non è il dubbio che la assalta, ma la desolazione della sua anima, simile al grido di Gesù sulla croce: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?".

A me impressiona profondamente pensare che una donna che si dedicò completamente ai più poveri fra i poveri, che sembrava riconoscere Gesù in tutto quello che faceva, che comunicava Dio potesse vivere in un'oscurità e una desolazione così profonde. Questo è il segreto della sua santità ancor più delle tante opere perché è tutto questo che la rende più straordinaria per il fatto che è capace di vivere tutto ciò per quasi 50 anni, apparentemente nascondendolo agli altri, ma invece cercando nel volto degli altri la risposta ai suoi interrogativi, mai chiudendosi, ma aumentando il suo impegno e questo è un modo aiutando i poveri di farsi aiutare, perché comprende che in loro il volto di Cristo si rende vivo. I fratelli sono stati per lei la via per illuminare il suo buio.

"Lei sorride sempre, le suore dicono di me alla gente. Pensano che la parte più intima di me sia piena di fede, di fiducia, d'amore... Se giungessero a sapere che il mio essere gioiosa non è altro che un manto con cui copro il mio vuoto e la mia miseria!". E in un'altra occasione dirà: "Il sorriso è una maschera, o uno strato che copre tutto".

In un suo scritto arriverà a Dio: "Ho iniziato ad amare la mia oscurità, perché adesso credo che essa sia una parte, una piccolissima parte, dell'oscurità e della sofferenza in cui Gesù visse sulla Terra".

L' ammirazione per la fede e per le opere di questa minuta religiosa, per questa santa che non sente, ma sa del profondo Amore di Dio, ed agisce come se lo sentisse, amando con tutto il suo cuore e facendo il bene dovunque passa, senza pensare neanche per un momento a sé stessa, dovrebbe crescere sempre di più.

Non si è isolata ha cercato nei poveri e nelle consorelle e in tutti coloro che l'aiutavano di scoprire il Dio con noi e ora l'ha ritrovato nell'eternità.

Non dobbiamo avere paura della notte, ma cerchiamo sempre di aprirci proprio in quei momenti per trovare con i fratelli la strada.

 

Fonte : www.lachiesa.it

 

III DOMENICA DI AVVENTO (ANNO C)

Omelia (12-12-2021)
padre Gian Franco Scarpitta

Il preludio della gioia e del Natale

Questa Domenica di Avvento viene identificata come quella della gioia, che, assieme alla preghiera, alla meditazione e alle necessarie opere di rinuncia per elevare lo spirito, caratterizza questo periodo che ci separa dalla celebrazione del Natale. In avvento non occorre cioè intensificare l'orazione, accrescere l'interiorizzazione, mortificarci e - secondo il monito del Battista - cambiare radicalmente mente e cuore per farla finita con il peccato e familiarizzare con Dio; occorre fare tutto questo nell'ottica della gioia e della serenità. E' indispensabile vivere il tempo di grazia che ci è concesso non come un tempo da trascorrere il più rapidamente possibile per arrivare al Natale, ma come luogo in cui si viva già adesso la caparra del Natale e la sua anticipazione. Quindi dev'essere un periodo di letizia e di gioia, nella consapevolezza che il Signore verrà presto a liberarci.
Così si esprime Sofonia in questo breve poema che forma la Prima Lettura di oggi, che si rivolge a Gerusalemme, città che attende la fine della prigionia e il rientro dei primi esuli da Babilonia: la liberazione è garantita, i verificherà certamente, sarà risolutiva dei problemi e delle difficoltà degli Israeliti e determinerà la festa perenne per tutti. Quale liberazione non si tramuta, nel corso della storia, in una ricorrenza di commemorazione di festa? Il 14 Luglio è festa per la Francia per la memoria della presa della Bastiglia; il 4 Luglio per gli Stati Uniti che celebrano la data della loro indipendenza; il 25 Aprile è la nostra festa nazionale in memoria della liberazione dopo la guerra partigiana.... Ogni occasione di liberazione determina una data di festa e così anche per il popolo di Gerusalemme sottomesso per anni alla schiavitù.
Ma la liberazione che Dio vuole apportare alla radicale schiavitù dell'uomo non può che suscitare una festa perenne di essa bisogna godere con anticipo. L'attesa del Signore che viene, già essa, deve rallegrarci, colmarci di gioia e di serenità. La conversione, anche se accompagnata dal sacrificio della rinuncia a noi stessi, dall'impegno sopra ricordato dell'esercizio dello spirito, dalla lotta continua contro il peccato e tutto ciò che è di ostacolo al nostro progresso, non può non essere caratterizzata dalla gioia e dal senso interiore di festa, che prelude la festa solenne della venuta del Signore.
Giovanni Battista qualifica questa gioia, attraverso quelle che sono le risultanze della conversione, le evidenze del rinnovamento operato di noi stessi. Si rivolge a pubblicani, categoria di persone ben nota per affari truffaldini e manovre di guadagno interessate e li invita a desistere dalle loro consuetudini disoneste. Esorta anche i soldati, evidentemente propensi a trarre benefici dalla loro posizione, invita tutti alla condivisione, alla generosità e alla concordia. Mentre va predicando nel deserto amministrando un battesimo di conversione per il perdono dei peccati, adesso che le folle lo interrogano su cosa si debba fare egli risponde che è indispensabile esercitare la condivisione, la carità, la solidarietà, dividendo quello che si ha a disposizione con coloro che hanno bisogno. Occorre fuggire la menzogna e la falsità e vivere l'onestà e la rettitudine, ricercare sempre la giustizia e mettere da parte la tendenza a imbrogliare e a prevaricare sugli altri, specialmente sui deboli.
Se la conversione non conduce alla carità sincera, concreta e disinteressata non è vera conversione, ma esibizionismo, oppure ostentazione inane di se stessi. La mutazione radicale del cuore e il cambiamento di mentalità secondo Dio non può che apportare i frutti dello stesso Signore, cioè l'amore, la giustizia, la bontà e quanto ad esse è correlato. Del resto, come potremo celebrare il Natale in piena coscienza se non avremo usato un minimo di attenzione verso il prossimo, specialmente quello povero e indigente? Come possiamo vivere la gioia del Natale in famiglia quando abbiamo omesso qualsiasi tentativo per sanare eventuali discordi o gelosie fra parenti o amici?
Proprio la carità e l'amore, che scaturiscono da una seria conversione per una fede fondata e incrollabile, sono il contrassegno della gioia e della letizia. Come dice la Scrittura: "Il Signore ama chi dona con gioia" (2Cor 9,7) e nel dare vi è più soddisfazione che non nel ricevere. La trasparenza e la schiettezza delle opere di bene sono davvero qualificanti di una vera conversione e di una vera fede perché sono la fede stessa in atto che ci rende contenti e appagati.
Quando, tanti anni or sono, smisi di fumare, ricordo che, una volta liberato dal fardello della cocaina, mi sentii fisicamente come svuotato di pesanti zavorre che mi avevano occluso; ero leggero, più ottimista e disinvolto e mi sentivo libero di agire e di realizzare molto più di quando ero schiavo del tabacco, poiché questo spesso occludeva anche la volontà e l'iniziativa e tale liberazione unita all'incremento della voglia di fare mi infondeva molta più soddisfazione e contentezza di prima. Penso che allo stesso modo saremmo tutti realizzati e soddisfatti quando finalmente saremo liberi dei gravami occlusivi del peccato e di tutti i veleni ad esso correlati; quando avremo superato gli ostacoli del nostro falso orgoglio, della presunzione, della vanità per mezzo di un serio itinerario di conversione sincera, reale ed effettiva e allora ci sentiremo liberi di librarci verso gli altri per mezzo della carità autentica apportatrice di gioia.

 

Fonte : www.lachiesa.it

 

III DOMENICA DI AVVENTO (ANNO B)

Omelia (13-12-2020)
don Lucio D'Abbraccio
Giovanni ci insegna l'umiltà

Le letture di questa domenica sono attraversate dal tema della speranza e della consolazione. Ma per noi che siamo credenti cosa significa speranza? Che cosa dice la Bibbia riguardo alla speranza?

A questa nostra domanda risponde il profeta Isaia: «Io gioisco pienamente nel Signore, la mia anima esulta nel mio Dio» (I lettura). Che cosa vuole dire il profeta? Vuole dire che la vera gioia è Dio, perché solo Lui è infinito e il cuore umano è sintonizzato sull'infinito: per questo motivo nessuna cosa o esperienza mondana ci soddisfa pienamente. Ne segue, dunque, che nessuna felicità è duratura se non poggia su Dio; e nessun dolore è insopportabile quando Dio è al centro della vita. Dio, infatti, non è colui che chiede, ma colui che dà.

Bisogna allora capire che il comandamento biblico: «Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze» (cf Dt 6,5), non è un comandamento a favore di Dio, ma a favore dell'uomo: non è un comandamento che «chiede», ma è un comandamento che «dona». Infatti l'uomo è chiamato ad amare Dio con tutto il cuore, perché solo così sarà libero, felice, aperto al dono della vita. L'inquietudine, la smania, l'insaziabilità, la tristezza... sono «assenza di Dio» e si curano soltanto accogliendo Dio.

Nella seconda lettura l'apostolo Paolo riprende il tema della speranza e lo sviluppa fino a farlo diventare letizia, pace, gioia nel riconoscere il bene degli altri, attesa fiduciosa del ritorno del Signore. Ma perché san Paolo parla di speranza? Perché egli è l'uomo che ha trovato il contenuto della speranza: «egli ha trovato Cristo» e Cristo è la nostra unica «gioia», «speranza» e «salvezza».

Sarà lui a scrivere: «Ho il desiderio di lasciare questa vita per essere con Cristo» (cf Fil 1,23); e ancora: «Da quando ho conosciuto Cristo, il resto è diventato come spazzatura per me» (cf Fil 3,8).

Ebbene, l'apostolo delle genti ci porta a rivedere la nostra posizione davanti alla buona notizia, che è Cristo. E allora domandiamoci: fino a che punto Cristo è la nostra speranza? Fino a che punto noi aspettiamo il Signore? Fino a che punto noi amiamo Dio? Fino a che punto siamo disposti ad aprire la porta del nostro cuore al Signore che bussa?

A queste nostre domande ci viene in aiuto il vangelo. Infatti attraverso la vicenda di Giovanni il Battista, il vangelo ci dice qual è l'atteggiamento che permette di sentire Dio e di riconoscerlo in Cristo.

Giovanni è un uomo mandato da Dio per dare testimonianza a Cristo: esattamente come ciascuno di noi. Giovanni, annota l'evangelista, viene interrogato: «Tu, chi sei?». La vita di ciascuno, infatti, fa nascere interrogativi negli altri. Ma attenti bene: quali sono gli interrogativi che noi suscitiamo con i nostri comportamenti? Che cosa avvertono gli altri di noi? Che cosa percepiscono le persone ascoltando i nostri discorsi e osservando le nostre scelte?

Il Battista risponde: «Io non sono il Cristo»! In questa risposta c'è tutta la grandezza dell'uomo: Giovanni è consapevole di essere un mendicante raggiunto dalla speranza, ma egli non usa la speranza per inorgoglirsi. Giovanni vede la luce, la indica agli altri: «Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce». Lui «uomo mandato da Dio, venuto come testimone per dare testimonianza alla luce», resta umile per non perdere la luce. Il Battezzatore è forte nella fede, ma nello stesso tempo è umile: egli è forte quando parla di Dio, ma è umile quando parla di se stesso; inoltre egli - «voce di uno che grida nel deserto» - non è geloso della vera «luce» ma è felice di gridare che «colui che viene dopo di me: a lui io non sono degno di slegare il laccio del sandalo». Facciamo un esame di coscienza e chiediamoci se anche noi siamo felici per il successo dei nostri fratelli o siamo gelosi e invidiosi!

Giovanni, dunque, ci insegna che soltanto l'umile riesce ad accettare Dio nella propria vita e soltanto l'umile riesce a parlare di Cristo senza appannarlo con il proprio orgoglio. Purtroppo la sterilità e l'inefficacia di tanto apostolato nasce dal fatto che noi cerchiamo di condurre le persone a noi e non a Cristo!

Cerchiamo di imitare il Battista il quale, come afferma sant'Agostino: «comprese di non essere altro che una lucerna e temette che potesse essere spenta dal vento della superbia. Per tale motivo si sforzò, chiedendo aiuto all'Onnipotente, di essere e di rimanere umile».