La Salette

Inserito in Preghiere alla Madre di Dio.

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LA STORIA DELL’APPARIZIONE DE LA SALETTE

L' apparizione di Maria a La Salette ai due pastorelli Mélanie Mathieu-Calvat, di quattordici anni, e Maximin Giraud, di undici, il 19 settembre 1846, ha avuto subito una grande risonanza. Insieme a tante persone ignote alla storia, uomini di cultura con prospettive assai differenti tra loro, come san Pierre-Julien Eymard, san Giovanni Bosco, Louis Veillot, Léon Bloy, Jacques Maritain, Maurice Blondel, Paul Claudel, Thomas Merton, ne rimasero affascinati. In particolare, Blondel scriveva: « Quel che spinge alcuni a credere è proprio quello che può far dubitare altri: le persone semplici amano i pellegrinaggi: lì, le ragioni del cuore possono essere appagate; e, grazie alla testimonianza di miracoli concreti, sensibili, accettano le grandi verità che, a causa del loro eccessivo splendore, li accecano. I saggi sono sempre scioccati da questi interventi così materiali e bizzarri del sovrannaturale. Ma dove starebbe l' uguaglianza tra i semplici e i saggi, se anche questi ultimi non dovessero compiere uno sforzo di sottomissione e di fede, uno sforzo più necessario e più grande che altrove, come nei dogmi dove trovano una chiarezza e una certezza maggiore? Allora cerchiamo di essere semplici, come bambini... » L' evento de La Salette non è certo facile da interpretare. Il messaggio dai toni forti, la vita dei veggenti scandita da una serie di alti e bassi, i movimenti non sempre ortodossi che ne sono seguiti, hanno reso questo avvenimento meno comprensibile di quanto in realtà esso non lo sia alla luce della fede. Le esperienze umane, nel momento in cui vengono sradicate dal flusso vitale di « tempi e luoghi » in cui hanno avuto origine, divengono oggetto di memoria e quindi « storia » da raccontare; in questo modo, però, si possono caricare di una serie di significati aggiuntivi che rischiano di alterare il fatto o le esperienze stesse. Il discorso diviene ancora più difficile se l' « evento » non si esaurisce nell' ambito delle cose naturali, ma entra nella dimensione carismatica delle apparizioni, dove « qualcosa » di divino si manifesta all' uomo. Eppure, la semplicità di cuore di tanta gente che, come l' emorroissa del vangelo, è ansiosa di toccare il lembo del mantello del Dio che « ci è nascosto », ha reso instancabile il flusso di pellegrini sulla « montagna de La Salette », fino ai nostri giorni.

1. L' AMBIENTE

Sulla strada nazionale francese che va da Grenoble ad Antibes, chiamata attualmente «route Napoléon», in relazione al passaggio di Napoleone al suo ritorno dall' esilio nell' isola d' Elba, si incontra, a 40 chilometri da Gap, un piccolo borgo montano, Corps (sito a 920 metri sul livello del mare). A est di questo paese inizia una vallata in salita che conduce al comune di « La Salette Fallavaux », composto da una dozzina di piccoli villaggi. Le montagne che lo circondano formano una catena montuosa, ed è proprio a nord di questo circolo montuoso, all' altezza di 1800 metri, che Maximin Giraud e Mélanie Mathieu-Calvat faranno la loro esperienza particolare. Nell' inverno 1845-46 le famiglie del comune de La Salette sono afflitte da una grande miseria causata dall' insufficienza dei raccolti e soprattutto dalla malattia delle patate, situazione riscontrabile, oltre che in Francia, in gran parte dell' Europa. Dunque, la gente che popolava queste vallate era segnata dal peso di una vita fatta di stenti e allo stesso tempo di dura fatica, resa ancor più assurda dalla scarsità dei suoi frutti. In tale contesto anche la situazione religiosa risulta problematica: la fede viene messa a dura prova da una vita che richiede tanto, ma in compenso non dà quasi niente. In alcuni documenti si possono trovare descrizioni che si compiacciono nel presentare queste persone come dei blasfemi, lontani da Dio, dediti a beffeggiare qualsiasi cosa legata alla religione; ma sono delle esagerazioni. Infatti, dallo studio dei documenti storici risulta che a Corps sono presenti diverse istituzioni religiose, quali la scuola cattolica (diretta dalle Suore della Provvidenza) e la confraternita del Cuore immacolato di Maria santissima (il cui scopo era la preghiera per la conversione dei peccatori). La frequenza alla messa domenicale era abbastanza regolare. Queste annotazioni sono molto importanti perché aiutano a comprendere il contesto religioso in cui viene poi accolta e interpretata l' apparizione della Vergine a La Salette. Saranno proprio queste persone, dopo l' evento, a invocare Maria come la «Vergine riconciliatrice dei peccatori». Tale titolo non è frutto di un' analisi teologica dell' evento fatta a tavolino da competenti teologi, ma è piuttosto l' espressione della fede di questo popolo che invoca Maria per la « conversione dei peccatori ».

2. I TESTIMONI

Pierre-Maximin Giraud, chiamato familiarmente Mémin, nasce a Corps il 26 agosto 1835, quartogenito di un povero carradore. Non ha ancora compiuto i diciotto mesi che perde la madre; il padre, di lì a poco, si risposa. Una serie di difficoltà lo accompagneranno durante tutto l' arco dell' infanzia. A undici anni non è ancora andato a scuola e non sa né leggere né scrivere e parla solamente il dialetto (patois) locale. Si può sicuramente dire che non ha nemmeno ricevuto una istruzione religiosa; ha appreso con fatica il Pater e l' Ave. Ci troviamo, dunque, di fronte a un ragazzino vivace come gli altri, stando alla descrizione che ne fa il suo compaesano Pierre Selme, presso il quale aveva prestato servizio dal 14 al 20 settembre 1846. Ma alla vivacità si accompagnava una irrequietezza singolare che non lo lascerà mai per tutta la sua vita. Infatti, nell' autunno del 1846, dopo l' apparizione de La Salette, comincia a frequentare la scuola con modesti risultati. Entra poi in seminario all' inizio del 1850 e ne esce nel 1858 per cominciare una vita errante, in cerca di se stesso e della sua identità. Lo ritroviamo nel Vésinet, a Yvelines, come impiegato dell' ospizio (1859); a Parigi; a Yonne, ospite del collegio di Tonnerre; nuovamente a Parigi, dove sembra intenzionato a studiare medicina e a intraprendere la carriera medica. Nel 1865 si reca a Roma e si arruola nel corpo degli zuavi pontifici, prestandovi servizio per sei mesi. Ritorna poi in Francia, dove viene accolto prima da san Pierre-Julien Eymard e poi dalla famiglia Jourdain, che lo adotta e lo tratta come un vero e proprio figlio. Pieno di debiti, Maximin ritorna a Corps, suo paese natale, nel 1869 e si lascia presto coinvolgere in affari economici che sfoceranno nel disastro. Ciò lo porta alla miseria: perseguitato dai creditori, e ammalatosi gravemente, riesce a superare l' inverno del 1874 solo grazie all' aiuto offerto dal santuario e dai Missionari de La Salette. Muore cristianamente a Corps il 1° marzo 1875. L' evento de La Salette aveva fatto di lui un cristiano, ma non aveva eliminato la sua naturale instabilità. Un giorno, terminando il racconto dell' apparizione, disse: « La Vergine, scomparendo, mi ha lasciato con tutti i miei difetti » A fronte di una vita così movimentata, rimangono valide le parole di mons. Félix Dupanloup, vescovo di Orléans: «La leggerezza di Maximin è fuori dal comune, [...] è una persona singolare, bizzarra, incostante, superficiale. [Tuttavia] si assiste ad un istantaneo, strano e profondo cambiamento [quando parla] del grande avvenimento. [...] Ci si aspetterebbe che egli ne parli sempre, aggiungendo dettagli, raccontando quel che ha provato e che prova adesso, ma ciò non accade; egli non aggiunge nulla alle risposte necessarie ».

Francoise-Mélanie Mathieu-Calvat, nasce a Corps il 7 novembre 1831, anch' essa quartogenita di una famiglia numerosa e molto povera. All' inizio del 1847 era ancora possibile vedere una delle sue sorelle mendicare per le vie di Corps. Suo padre, a differenza di quello di Maximin, non aveva un mestiere fisso, come testimoniano gli atti civili. Dall' età di dieci anni Mélanie era stata avviata al lavoro presso vari abitanti della regione, a Quet-enBeaumont, Saint-Luce, ecc.; la sua vita in famiglia era ridotta a ben poco, poiché vi passava quasi esclusivamente i mesi invernali. Affetta da gravi carenze nello sviluppo fisico, segnata dalla mancanza di affetto, abituata a vivere in solitudine le sue giornate di pastorella, Mélanie è una persona dal carattere bloccato. Anche per lei sono valide le parole di mons. Dupanloup che rileva in Mélanie una timidezza mista ad aggressività, che difficilmente permette alla gente di trovarsi a proprio agio con lei; eppure, quando si tratta di parlare dell' apparizione, Mélanie cambia profondamente, divenendo umile, semplice e disinteressata. Segnata quindi da questa grande carenza affettiva, Mélanie non solo si caratterizzerà per i suoi notevoli sbalzi di umore, ma anche lei come Maximin si porterà dietro per tutta la vita come una sorta di inquietudine. Analfabeta, avrà notevoli difficoltà ad apprendere la lingua francese: entrata nella scuola della suore a quindici anni compiuti, si dimostrerà ancor meno dotata di Maximin nella lettura e nella scrittura. Riceverà, insieme con lui, la sua prima comunione il 7 maggio 1848. Nell' autunno del 1850 diviene postulante nella Casa Madre delle Suore della Provvidenza a Corenc presso Grenoble. Nel 1851 fa la vestizione e prende il nome di suor Maria della Croce, ma poi, nel 1853, non viene ammessa ai voti. Parte così per l' Inghilterra, dove a Darlington entra nel Carmelo e fa professione dei voti nel 1856. Ma nel 1860 abbandona il Carmelo. Dopo aver soggiornato presso le Suore della Compassione di Marsiglia, si reca in Italia, dove risiede a più riprese dal 1867 al 1884 e dal 1892 al 1898. Nel 1904 ritorna in Italia e si stabilisce ad Altamura, in provincia di Bari, dove morirà nella notte tra il 14 e il 15 dicembre di quello stesso anno. Nel 1912 Léon Bloy ha pubblicato un libro dal titolo: « Vita di Melania, pastorella de La Salette, da lei stessa scritta nel 1900. La sua infanzia (1831-1846) » [Vie deMétanie bergère de La Salette écnte par elle méme en 1900. Son enfance (1831-1846)]; in esso, la giovane pastorella de La Salette viene presentata come una mistica istruita direttamente e personalmente da Gesù, stigmatizzata dall' età di tre anni e capace dei miracoli dei più grandi santi. Queste affermazioni provengono effettivamente da Mélanie, almeno nelle loro linee essenziali. Eppure nulla di tutto questo era emerso durante le inchieste condotte dall' autorità ecclesiastica per accertare la veridicità dell' apparizione. Come spiegare allora questo cambiamento profondo, in cui l' evento centrale non è costituito più dal fatto de La Salette, ma da altri e numerosi fenomeni sovrannaturali? La causa va ricercata negli anni 1850-53, che segnano il termine dell' evoluzione di un cammino iniziato nel 1847. A partire da questo periodo, Mélanie viene fatta oggetto di una specie di culto da parte delle suore che l' avevano accolta a scuola, e tale atteggiamento diverrà più esplicito durante il noviziato. Suggestionata dalle attenzioni della maestra di noviziato e dalle letture di spiritualità apocalittica offertele come testi di formazione, Mélanie compone nel 1853 un primo racconto autobiografico, infarcito di esperienze mistiche e sovrannaturali. Questo porterà il vescovo di Grenoble, mons. Jacques-Achille-Marie Ginoulhiac a prendere una posizione ufficiale: il 4 novembre 1854 emanerà un decreto dottrinale dove si distingue la Mélanie del 1846, testimone e strumento umile dell' apparizione, dalla Mélanie attuale, che avanza pretese mistiche. In questo decreto si legge: « Dovendo parlare dei due ragazzi de La Salette, non c' è assolutamente bisogno di rilevare che la loro condotta attuale [...] non costituisce una prova contro il fatto dell' apparizione. [...] D' altra parte si cadrebbe egualmente in errore se si pensasse che la prova principale della realtà dell' apparizione derivi dal carattere morale dei bambini all' epoca dei fatti. [...] Ma se le qualità morali dei fanciulli, quali erano il 19 settembre 1846, interessano poco in relazione alla realtà del fatto de La Salette, ancor meno importa quel che sono diventati dopo. [...] Noi siamo convinti che le predizioni attribuite a Mélanie e il significato che vi si attribuisce non hanno alcun fondamento, e siamo altrettanto sicuri che non hanno alcuna importanza in relazione al fatto de La Salette, perché [...] sono certamente posteriori a quest' ultimo e non vi intrattengono alcuna relazione ». Ma la suggestione è tale che Mélanie arriva ad alterare anche il messaggio de La Salette: negli ultimi anni della sua vita aggiungerà al testo ufficialmente approvato dalla Chiesa varie parti di stampo nettamente apocalittico, sviluppando soprattutto quello che, a suo dire, costituisce il segreto affidatole da Maria nell' apparizione. Questi testi, soprattutto quelli relativi al presunto « segreto », conosceranno una sempre crescente diffusione, soprattutto nell' Italia meridionale, a causa dei frequenti contatti di Mélanie con diversi ecclesiastici, primi fra tutti mons. Francesco Saverio Petagna, vescovo di Castellammare di Stabia, e mons. Salvatore Luigi Zola, vescovo di Lecce, oltre al canonico Annibale Maria Di Francia. Entrata ormai in questo vortice inarrestabile, Mélanie cercherà di dare vita anche ad una congregazione religiosa, « L' Ordine della Madre di Dio e degli Apostoli degli ultimi tempi », motivando scelta del nome, inizio della sua costituzione e definizione delle finalità con le sezioni da lei stessa aggiunte al messaggio de La Salette, e pertanto non approvate dalla Chiesa. Comunque, Mélanie darà sempre esempio di una vita penitente, ascetica, fino alla sua morte, avvenuta mentre pregava in ginocchio. Dopo la sua morte, l' interesse creatosi attorno alla sua persona non svanirà. A tutt' oggi è ravvisabile il movimento « melanista », che continua, purtroppo, a diffondere notizie false intorno all' evento de La Salette, a Mélanie stessa, provocando diffidenza e sospetto nei confronti dell' apparizione da parte delle comunità cristiane, di alcuni settori della gerarchia e degli studiosi.

3. IL FATTO

Domenica 13 settembre 1846 Pierre Selme, agricoltore degli Ablandins, arriva a Corps per cercare qualcuno che possa rimpiazzare il suo pastore ammalatosi nel frattempo. Il carradore Giraud allora decide di destinare suo figlio Maximin a questo incarico. Così, da lunedì 14 settembre, Maximin conduce al pascolo le mucche di Pierre Selme; quest' ultimo, conoscendo la leggerezza del ragazzo, non lo lascia solo e lo sorveglia da lontano. I luoghi di pascolo sono quelli dove avverrà l' apparizione. Mélanie si trova già agli Ablandins, a servizio di Baptiste Pra, e anche lei conduce al pascolo, vicino ai luoghi dell' apparizione, le mucche del suo padrone. La sera di venerdì 18 settembre i ragazzi s' incontrano per la prima volta: pur essendo nativi dello stesso paese, Corps, non avevano mai avuto modo di conoscersi prima. La mattina di sabato 19 settembre 1846 Maximin e Mélanie partono insieme per condurre al pascolo quattro mucche ciascuno; Maximin ha con sé anche una capra e un cane. Verso mezzogiorno, quando la campana suona l' Angelus delle dodici, i due pastorelli fanno abbeverare gli animali alla cosiddetta « fontana delle bestie »; poi si avvicinano alla « fontana degli uomini » e lì consumano il loro pasto, a base di pane e formaggio; una volta finito, altri tre pastori arrivano alla fontana e si intrattengono con i ragazzi che, dopo la loro partenza, sentono il bisogno di riposarsi. Dopo una o due ore, Mélanie si sveglia e, non scorgendo più le bestie, chiama Maximin e corre su per il colle a cercarle; Maximin la segue. Trovatele, si tranquillizza e inizia a scendere dal colle. Fatti alcuni passi, Mélanie scorge all' improvviso un globo di luce nel luogo dove avevano lasciato i tascapane. Chiama in fretta Maximin, e insieme cercano di capire cosa stia accadendo: la paura si impossessa dei due ragazzi; Mélanie lascia cadere il suo bastone, mentre Maximin cerca di riprenderlo, per potersi difendere da quella luce. Ma a questo punto i ragazzi scorgono all' interno del globo di luce la figura di una donna, che essi chiameranno sempre la « bella Signora », seduta con i gomiti poggiati sulle ginocchia e il viso nascosto tra le mani; la sentono singhiozzare. La donna si alza lentamente e dice: « Avvicinatevi, figli miei, non abbiate timore, sono qui per annunciarvi un grande messaggio ». È vestita come le donne del villaggio: un abito che scende fino ai piedi, uno scialle, una cuffia sulla testa, un grembiule annodato attorno ai fianchi. La cuffia, l' orlo dello scialle e i piedi sono ornati da ghirlande di rose. Accanto alle rose dello scialle è visibile una pesante catena, mentre al petto porta un crocifisso con ai lati un paio di tenaglie e un martello. Allora la « bella Signora » continua: « Se il mio popolo non vuole sottomettersi, sono costretta a lasciare libero il braccio di mio Figlio. Esso è così forte e così pesante che non posso più sostenerlo. Da quanto tempo soffro per voi! Se voglio che mio Figlio non vi abbandoni, mi è stato affidato il compito di pregarlo continuamente per voi; voi non ci fate caso. Per quanto pregherete e farete mai potrete compensare la pena che mi sono presa per voi. Vi ho dato sei giorni per lavorare, mi sono riservato il settimo e non me lo volete concedere. E’ questo che appesantisce tanto il braccio di mio Figlio! Coloro che guidano i carri non sanno imprecare senza usare il nome di mio Figlio. Queste sono le due cose che appesantiscono tanto il braccio di mio Figlio. Se il raccolto si guasta, la colpa è vostra. Ve l' ho mostrato l' anno passato con le patate: voi non ci avete fatto caso. Anzi, quando ne trovavate di guaste, bestemmiavate il nome di mio Figlio. Esse continueranno a marcire e quest' anno, a Natale, non ve ne saranno più ». La parola «patate» (pommes de terre, in francese) mette in imbarazzo Mélanie. Nel dialetto locale, le patate vengono chiamate « las truffas ». La ragazza si rivolge allora a Maximin. Ma la « bella Signora » la previene, continuando il suo discorso non più in francese, ma nel dialetto dei ragazzi: « Voi non capite, figli miei? Ve lo dirò diversamente. Se avete del grano, non seminatelo. Quello seminato sarà mangiato dagli insetti e quello che verrà cadrà in polvere, quando lo batterete. Sopraggiungerà una grande carestia. Prima di essa, i bambini al di sotto dei sette anni saranno colpiti da tremito e morranno tra le braccia di coloro che li terranno. Gli altri faranno penitenza con la carestia. Le noci si guasteranno e l' uva marcirà ». A questo punto, la donna affida un segreto a Maximin e poi a Mélanie; quindi prosegue: « Se si convertono, le pietre e le rocce si tramuteranno in mucchi di grano e le patate nasceranno da sole nei campi. Fate la vostra preghiera, figli miei? ». « Non molto, Signora », rispondono entrambi. « Ah, figli miei, bisogna proprio farla, sera e mattino! Quando non potete far meglio, dite almeno un Pater e un ' Ave Maria; quando potete fare meglio, ditene di più. A messa, d' estate, vanno solo alcune donne anziane; gli altri lavorano di domenica, tutta l' estate. D' inverno, quando non sanno che fare, vanno a messa solo per burlarsi della religione. In Quaresima, vanno alla macelleria come i cani. Avete mai visto del grano guasto, figli miei? ». « No, Signora », rispondono. Allora la donna si rivolge a Maximin: «Ma tu, figlio mio, lo devi aver visto una volta con tuo padre, verso la terra di Coin. Il padrone del campo disse a tuo padre di andare a vedere il suo grano guasto. Vi andaste tutti e due, prendeste in mano due o tre spighe, le stropicciaste e tutto cadde in polvere. Al ritorno, quando eravate a mezz' ora da Corps, tuo padre ti diede un pezzo di pane dicendoti: "Prendi, figlio mio, mangia ancora del pane quest' anno, perché non so chi ne mangerà l' anno prossimo, se il grano continua in questo modo"». « Oh, sì, Signora, ora ricordo: prima non me lo ricordavo! », risponde Maximin. La donna riprende a dire in francese: «Ebbene, figli miei, fatelo conoscere a tutto il mio popolo». Poi inizia a muoversi, attraversa il ruscello e, senza voltarsi, ripete: « Andiamo, figli miei, fatelo conoscere a tutto il mio popolo ». La « bella Signora » risale il sentiero sinuoso che porta al Collet e si eleva da terra; i pastorelli la raggiungono e si accorgono che guarda prima il cielo e poi la terra. A quel punto, la donna inizia a fondersi nella luce, e quest' ultima, a sua volta, scompare.

4. L' ACCOGLIENZA DEL FATTO E L' APPROVAZIONE DELLA CHIESA

Testimoni di un evento straordinario, Maximin e Mélanie ritornano a valle, e sarà lo stesso Maximin a darne notizia sia al suo padrone, Pierre Selme, che al padrone di Mélanie, Baptiste Pra. La mattina seguente Pierre Selme e Baptiste Pra inviano i pastorelli dal parroco del villaggio de La Salette, Jacques Perrin, che, toccato dal racconto dei ragazzi, parla subito dell' apparizione nell' omelia domenicale. Da questo momento inizia il lungo cammino d' indagine sull' accaduto per verificarne la veridicità. Il vescovo di Grenoble, mons. Philibert de Bruillard, è ufficialmente informato del fatto il 5 ottobre 1846, attraverso la lettera dell' arciprete di Corps, Pierre Mélin: «Desidero comunicare a sua Eccellenza la cosa più straordinaria che io abbia inteso da quando esercito il ministero. Mi atterrò ai dati principali: sabato 19 settembre due bambini della parrocchia di Corps hanno visto, verso le tre o le quattro del pomeriggio, una Signora… » Leggendo questa lettera, il vescovo di Grenoble ha l' impressione che il curato Mélin sia troppo preso dalla fretta di trarre conclusioni. Quindi scrive a margine della lettera « à examiner de nouveau » (« da riesaminare »), chiedendo all’arciprete di Corps maggiori informazioni. Senza però nemmeno attendere la risposta di Mélin, mons. de Bruillard il 9 ottobre invia una lettera circolare a tutti i preti della sua diocesi e, ricordando loro le prescrizioni sinodali del 1829, li invita ad astenersi dal dichiarare miracoli nuovi senza l' autorizzazione del vescovo e della Santa Sede, aggiungendo: « Non abbiamo fatto alcun pronunciamento sui fatti in questione. La saggezza e il dovere ci impongono, dunque, il più grande riserbo e, in modo particolare, un silenzio assoluto in materia durante la predicazione ». Il 12 ottobre Mélin risponde al vescovo cercando di prevenirlo in qualsiasi dubbio. Ma mons. de Bruillard non si accontenta delle sue informazioni e quindi fa continuare le ricerche fino a che non istituisce una commissione apposita che presiede lui stesso. La prima riunione della commissione ebbe luogo l' 8 novembre 1847 Dopo quattro anni di ricerche, il 19 settembre 1851 mons. de Bruillard firma il decreto di approvazione dell' apparizione della Vergine a La Salette, decreto che verrà pubblicato il 10 novembre. E’ singolare l' introduzione del vescovo: « Nonostante il naturale candore dei due ragazzi... nonostante la costanza e la fermezza della loro testimonianza... per lungo tempo noi abbiamo dovuto mostrarci scettici e incapaci di ammettere, in modo incontestabile, un avvenimento così meraviglioso... Così abbiamo cercato con cura meticolosa tutte le ragioni per rigettarlo e non ammetterlo, sebbene una folla di anime pie lo avesse accolto con grande risonanza ». Si può riconoscere, in queste parole, la saggezza della Chiesa che non corre mai nei suoi giudizi; dopo una serie di considerazioni, il decreto così continua: « Art. 1 - Noi giudichiamo che l' apparizione della santa Vergine a due pastorelli il 19 settembre 1846, su una montagna della catena delle Alpi, situata nella parrocchia de La Salette... porta in se stessa tutti i caratteri della verità, e che i fedeli hanno fondate ragioni per ritenerla indubitabile e certa. Art. 2 - Noi crediamo che questo fatto acquisti un nuovo grado di certezza per l' accorrere spontaneo e immenso di fedeli sui luoghi dell' apparizione... Art. 3 – E’ per questo, per testimoniare a Dio e alla gloriosa Vergine Maria la nostra viva riconoscenza, che noi autorizziamo il culto a Nostra Signora de La Salette... ».

5. I MISSIONARI DI NOSTRA SIGNORA DE LA SALETTE

Al decreto di approvazione fa seguito, il 1° maggio 1852, un altro decreto con il quale mons. de Bruillard annuncia la costruzione, sui luoghi dell' apparizione, di un santuario dedicato a Nostra Signora de La Salette e, allo stesso tempo, la costituzione di un gruppo di missionari incaricati del suo servizio, i Missionari di Nostra Signora de La Salette: « Per quanto possa essere importante l' erezione di un santuario, vi è ancora qualche cosa di molto più importante: cioè i ministri della religione, destinati al servizio del santuario stesso, all' accoglienza dei pellegrini, a predicare la parola di Dio, all' esercizio del ministero della riconciliazione, all' amministrazione del sacramento dell' eucaristia e ad essere, per tutti, i dispensatori fedeli dei misteri di Dio e dei tesori spirituali della Chiesa. Questi sacerdoti saranno chiamati i "Missionari di Nostra Signora de La Salette". La loro istituzione e la loro esistenza saranno, come il santuario stesso, un perpetuo ricordo dell' apparizione misericordiosa di Maria ». La costruzione della basilica termina nel 1865, e il 19 gennaio 1879 papa Leone XIII decreta per il santuario de La Salette il titolo di basilica minore e la solenne incoronazione della statua della Vergine « Riconciliatrice dei peccatori ». Con decreto della Sacra Congregazione dei Riti del 20 giugno 1934, la Santa Sede proclama la Madonna de La Salette patrona principale dell' istituto omonimo, fissandone la festa al 19 settembre, giorno anniversario dell' apparizione. Pio XII, il 22 febbraio 1943, concede la messa e l' ufficio propri. Il testo italiano della messa in onore della beata Vergine Maria de La Salette viene approvato il 2 settembre del 1978. La Collectio Missarum in onore della Vergine Maria, edita in lingua latina nel 1986 dalla Sacra Congregazione per i Sacramenti e il Culto divino e tradotta in italiano l' anno seguente, riporta nel tempo quaresimale il formulario « Maria Madre della riconciliazione », dove si fa esplicita menzione dell' apparizione e della congregazione Ben presto, i sacerdoti diocesani chiamati a servire il santuario, e per i quali mons. de Bruillard aveva preparato un « progetto di regola », riflettendo sull' apparizione e vivendone le linee centrali di spiritualità, si sentirono chiamati a vivere la consacrazione religiosa in comunità, per dare una più significativa testimonianza dell' evento. Scrive p. Roger Castei: « La mediazione della grazia de La Salette, la richiesta spirituale dei pellegrini hanno guidato molto rapidamente questi pastori a una conversione circa la loro stessa vita e l' avvenire della loro associazione. In una lettera "fondatrice", il 4 agosto 1855, p. Francois Denaz [uno dei primi sacerdoti chiamati a servire il santuario] chiede a mons. Ginoulhiac "la vita religiosa coi tre voti" (castità, povertà e obbedienza); è profondamente convinto che "la Madonna vuole una congregazione che sia in rapporto con l' entità e l' estensione dell' opera di cui ella stessa è venuta a gettare le basi!". I voti della vita religiosa, prima temporanei poi perpetui, garantiranno a questa congregazione le condizioni di durata e di estensione. Per di più, l' avvenimento de La Salette, così approfondito e vissuto, sarà un rimedio idoneo ai mali che sgretolano la società ». Si apre così un lungo cammino di discernimento, che ha visto protagonisti i cappellani del santuario e il vescovado di Grenoble, e che sfocerà nella costituzione di una congregazione religiosa prima di diritto diocesano il 2 febbraio 1858, poi di diritto pontificio il 27 maggio 1879. Attualmente l' istituto è presente in ventun nazioni e conta circa novecento religiosi. La sua identità e la sua missione possono essere così formulate: - la congregazione dei Missionari di Nostra Signora de La Salette è chiamata a vivere la propria consacrazione battesimale e religiosa alla luce dei valori della preghiera, della penitenza e dello zelo evidenziati dall' apparizione de La Salette, dedicandosi al devoto servizio del Cristo e della Chiesa, sull' esempio di Maria, serva del Signore, completamente dedicata alla persona e all' opera di suo Figlio, che fu costituita riconciliatrice ai piedi della croce; - la sua missione è ricondurre sulla retta via della salvezza coloro che ne hanno deviato e coloro che sono incerti o vacillanti con la predicazione della parola di Dio e la celebrazione dei sacramenti; per questo si fa voce, con apostolico zelo, dei molteplici errori che si presentano nella storia umana e che attentano alla dignità della persona umana, in vista del compimento del mistero della riconciliazione, quando Dio sarà tutto in tutti.

6. LE SUORE DI NOSTRA SIGNORA DE LA SALETTE

Madame Henriette Deluy-Fabry 27, nata a Marsiglia il 30 novembre 1828, si recò molte volte pellegrina a La Salette, rimanendo affascinata dal mistero delle lacrime di Maria. Questo cammino spirituale le fece scoprire la vocazione alla vita religiosa, però non in un istituto già esistente. Si sentì chiamata a fondare un nuova congregazione, ancorata all' evento dell' apparizione secondo un triplice legame, costituito dallo spirito di immolazione e di sacrificio, dallo spirito apostolico e dallo spirito di preghiera. Nel 1866, in occasione di una visita a Roma, ebbe la possibilità di esporre questo suo progetto al papa Pio IX, da cui ricevette l' incoraggiamento a proseguire su questa strada. Ella espose le sue intenzioni anche a mons. Ginoulhiac, vescovo di Grenoble, che incaricò il suo vicario generale di fornire tutto l' aiuto necessario alla stesura delle costituzioni. Il 17 settembre 1871 il vescovo di Grenoble diede l' abito alla fondatrice e a cinque novizie, tre coriste e due converse. Il 20 dicembre 1872 le prime sette «Religiose Riparatrici di Nostra Signora de La Salette» salivano al santuario de La Salette per vivere il servizio e l' accoglienza delle pellegrine. Madame Deluy-Fabry rimase alla guida della congregazione fino al 1874, quando fu sostituita, per ragioni di salute, da suor Santa Chantal; morirà a Marsiglia il 13 giugno 1905. Successivamente, anche a causa delle leggi anticongregazioniste della Francia di inizio secolo, le Religiose Riparatrici di Nostra Signora de La Salette hanno seguito i Missionari di Nostra Signora de La Salette in Belgio e in Polonia, contribuendo alla direzione delle loro scuole apostoliche; e si sono dedicate, a Grenoble, all' assistenza dei poveri nel quartiere Notre-Dame, oltre che al servizio della Cappella dell' Adorazione. Padre Célestin Crozet, sesto superiore generale dei Missionari di Nostra Signora de La Salette, in seguito a una decisione presa con il consenso del suo consiglio, fondava nel 1928 le « Suore Missionarie di Nostra Signora de La Salette » Dopo un primo esperimento a Fourqueux, le prime sei candidate si stabilirono a Courmelles lès-Soissons nel 1929. Qui, grazie all' autorizzazione concessa dalla Sacra Congregazione dei Religiosi il 24 gennaio 1930, mons. Ernest Mennechet, vescovo di Soissons, il 2 febbraio dello stesso anno erigeva canonicamente la comunità in congregazione di diritto diocesano e ne approvava le costituzioni il 25 ottobre seguente. Queste suore avevano il compito di servire i Missionari e di dedicarsi ad ogni opera di apostolato femminile. Nel 1955, su richiesta delle Religiose Riparatrici di Nostra Signora de La Salette, si esaminò un progetto di unificazione per questi due istituti femminili. I lavori durarono a lungo e terminarono nel 1965 con l' approvazione dell' autorità competente di Roma. Si diede vita così alle « Suore di Nostra Signora de La Salette », attualmente presenti in Francia, in Brasile, nelle Filippine e in Madagascar. Nella loro Regola di vita si legge: « Lo spirito di riconciliazione, come le suore lo intendono dai gesti e dalle parole di Maria nella sua apparizione, si esprime con una vita di preghiera, di sacrificio e di apostolato. La loro preghiera si unisce a quella di Maria che, in cielo, con la sua ininterrotta intercessione, non desiste di ottenere al "suo popolo" le grazie della salvezza. Il loro sacrificio si attua nell' oblazione di se stesse a Dio, rinnovata in ogni istante con l' accettazione della volontà del Padre, che le unisce, con Maria, alla vita redentrice del Cristo e al suo sacrificio sulla croce. Il loro apostolato è colmo di quest' amore che rende la Madonna così sollecita ai bisogni dei suoi figli. Quest' amore riempie il loro cuore di ansia premurosa per i poveri, i diseredati, per tutti coloro che sono nell' indigenza. Con tutta la loro vita, le suore vogliono testimoniare l' appello del Cristo alla riconciliazione e alla conversione ».

7. CONCLUSIONE

I frutti di grazia sorti dall' evento de La Salette non si esauriscono qui. Oltre alle due congregazioni (maschile e femminile) che ne portano il nome, parecchie confraternite e opere laicali di riparazione e di apostolato hanno trovato nelle parole di Maria la loro nascita oppure un nuovo slancio missionario in diverse parti del mondo. La Salette è infatti una grazia per la Chiesa intera: la celebrazione del 150° anniversario dell' apparizione (1846-1996) è un invito a riscoprirne tutta la carica evangelizzante per il nuovo e terzo millennio che ormai si affaccia alle nostre porte. Il discorso che seguirà vuole essere un umile contributo a questa sfida decisiva ed esaltante.

L’apparizione de La salette alla luce della Sacra scrittura

1. LA PROFEZIA

L' evento de La Salette si presenta nella sua organica totalità come un intervento profetico all' interno della storia degli uomini e affonda le sue radici nel mistero dell' incarnazione redentrice. La sua peculiarità consiste, principalmente, nel messaggio affidato dalla Vergine a tutta la Chiesa. Come già ricordato, quest' ultimo non è una nuova verità rivelata. Si tratta invece di un invito, di una traccia da seguire per accogliere e crescere nella definitiva rivelazione di Cristo, custodita e trasmessa dalla Chiesa. Non sempre si coglie il carattere autentico della profezia, ma spesso la si confonde con la previsione del futuro, sullo stile degli indovini e dei cartomanti di turno. Ciò accade perché la si stacca dal suo ambiente generativo, cioè l' esperienza di fede di Israele e della Chiesa condensate nella sacra Scrittura. Una volta ricondotta in questo suo ambiente nativo, la profezia è in grado di mostrare il suo carattere specifico e la perenne attualità che coinvolge i suoi due protagonisti: il Signore e la persona umana. La profezia nasce in un contesto di alleanza, cioè di reciproca appartenenza storica tra Dio e il suo popolo: non è uno speculare astratto o morale su Dio e sull' uomo, ma il respiro vitale che abbraccia due libertà, quella divina e quella umana, in continua tensione tra loro, aperte all' incontro e allo scontro. « L' esperienza profetica è dunque questa esperienza mistica e diretta della realtà e della presenza di Dio. I profeti non fanno che rivelare la natura e il carattere di Dio di cui hanno avuto una simile esperienza, e affermano le implicazioni della natura e del carattere di Dio col modo di pensare e di agire degli uomini ». Se si guardano i libri biblici che ci hanno consegnato le esperienze dei profeti, troveremo molto spesso, insieme a lamentazioni, vaticini di guai, promesse di speranza e altre immagini ancora, dei passi che si ispirano allo stile giuridico della legge del taglione. Nota il biblista Pietro Bovati: « La profezia si presenta in larga parte come una pubblica accusa, indirizzata contro i colpevoli di gravi crimini. Non però come avviene in una procedura giudiziaria, nella quale l' accusatore denuncia presso un tribunale l' autore di un delitto e mette così in moto un processo destinato a sfociare nella condanna dell' imputato. Nella profezia si tratta piuttosto della procedura della controversia bilaterale, del litigio tra Dio (che, per l' alleanza, è come un padre, uno sposo, un sovrano) e il suo popolo (che è come un figlio disobbediente, una moglie adultera, un servitore infedele); il profeta parla a nome del Signore, ripete le sue stesse parole che sono di rimprovero, ma la cui finalità è essenzialmente quella di indurre il peccatore alla conversione, e portare così entrambi alla riconciliazione. Ecco allora che la profezia, pur usando toni severi, propone sempre una possibilità di pentimento e di perdono (Is 1,19-20; Ger 3,13-14; 25,3-7; 36,3; Am 5,4-6.14-15; ecc.). Essa ha senso proprio rivolta a chi non ascolta, a chi ha bisogno di essere scosso nel suo cuore e indotto a riflettere e a cambiare vita. Perciò stesso la profezia rivela la fedeltà di Dio alla sua alleanza, la sua incredibile pazienza (Es 34,6; Gio 4,2; Na 1,3; ecc.), la sua natura misericordiosa (Ger 3,12; 31,20; Os 11,8-9; ecc.). Invece di svilire il senso della parola di Dio, il non ascolto da parte del popolo esalta maggiormente l' iniziativa amorosa di Jhwh e rivela una gratuità e una generosità assolutamente divine».

2. LA FIGURA DEL PROFETA NELLA RIVELAZIONE ANTICOTESTAMENTARIA

Dopo aver gettato questo sguardo d' insieme sul fenomeno profetico, è utile ora fermarsi sulla persona del profeta, per tentare di coglierne l' esperienza profonda, vale a dire la sua identità e la sua missione. A tale proposito bisogna però confessare che « il messaggero antico testamentario lo incontriamo avvolto in tale varietà di forme che non riusciamo a profilarne l' identità: può levarsi in piedi nella corte dichiarando colpevole il monarca e nascondersi fuggitivo nel deserto; come giunco squassato dai propri insuccessi può invocare la morte; lo convocano al palazzo, viene espulso dal paese, è predicatore nei templi... ». Voler produrre una definizione precisa e puntuale del profeta sembra dunque un' impresa destinata all' insuccesso: il profeta non è il prodotto di una catena di montaggio. Ogni profeta ha una sua esperienza personalissima dell' incontro con il Signore, ed è questa che trasfonde negli scritti che ci conservano la testimonianza della sua predicazione. Nonostante questo, è però possibile individuare, grazie all' analisi letteraria e teologica di questi scritti profetici, tutta una serie di caratteristiche che si ritrovano, ciascuna con sfumature e accenti propri, in ogni singolo profeta. Egli è innanzi tutto un chiamato: a rendere tale il profeta è la vocazione che riceve dal Signore. Che questo sia l' elemento decisivo e capitale, lo si ritrova confermato anche dalla cura che i profeti hanno avuto nel raccontare l' esperienza della propria chiamata. Pertanto è a partire dalle narrazioni di vocazione che si può comprendere il significato della figura profetica e la sua funzione nello sviluppo della vita di Israele. Le vocazioni profetiche ci presentano degli uomini pienamente inseriti nelle vicende storiche del popolo cui appartengono: un popolo particolare, perché eletto e chiamato a sua volta. Non si è profeti accanto a un popolo o al di sopra di un popolo: si è profeti all' interno di un popolo. Questa solidarietà reciproca si rivela decisiva, perché si pone come orizzonte di significato per lo stesso essere profeti: si è tali per guidare Israele nel cammino di fede e di obbedienza al Signore sempre presente e fedele all' alleanza. La consacrazione del profeta ad opera dello Spirito di Dio che si posa su di lui non va dunque intesa come separazione dal mondo e dalla storia, ma come apertura alla mediazione tra il divino e l' umano. La duplice solidarietà del profeta con il Dio dell' alleanza e con Israele lo rende «mediatore qualificato» del piano di salvezza. In questo senso, il profeta diviene partecipe dello « statuto vocazionale » di Abramo, quale ci è descritto in Gn 18,17-33. Lì il padre dei credenti si fa mediatore per Sodoma e Gomorra; anzi « Abramo si pone nella condizione dell' intercessore. E questo un modo particolare di rapportarsi all' umanità. Egli è benedizione per i popoli, posti sotto l' ira divina, nella misura in cui li toglie dalla maledizione sovrastante e li inserisce nella benedizione ». La mediazione di Abramo e del profeta parte quindi dalla coscienza che Israele è chiamato da Dio ad essere benedizione per sé e per il creato intero: « Siccome Abramo è il tramite della benedizione per tutte le genti, egli ha il diritto d' intervenire presso Dio in ogni questione riguardante l' umanità. Così Dio non può tenere nascosto al suo benedetto il disegno di distruggere Sodoma. E allora Abramo, che pure sa di non essere altro che polvere e cenere, ha l' ardire di intercedere presso di lui in favore delle genti maledette a causa dei loro peccati ». Guidare Israele nel cammino di fedeltà e di obbedienza al Signore significa allora, per il profeta, fare memoria con la propria vita e il proprio annuncio della vocazione originale di Israele ad essere benedizione per la storia e il mondo. In questo senso, egli è « sacramento », ossia segno visibile e intelligibile, della presenza di Dio in mezzo al suo popolo e del suo progetto salvifico. L' esistenza « sacramentale » del profeta suppone in lui una trasformazione profonda: «Esaminando l' eletto dal di dentro scopriamo una vocazione = incontro con Dio, plasmata in tre momenti: certezza di una chiamata, esperienza di un cambiamento, coscienza di missione. Così l' eletto scopre la responsabilità nella salvezza di altri, la necessità della sua profonda trasformazione. [...] Il soggetto rimane convertito, strappato agli interessi particolari e aperto all' esigenza di Dio, con la quale si deve identificare». Proprio questa esigenza di Dio porta il profeta a farsi rappresentante del popolo di fronte al Signore in un legame di reciproca responsabilità, che non deve venir meno di fronte al peccato e all' abbandono dell' alleanza. E molto significativo, a questo proposito, un midrash su Elia, il grande profeta d' Israele, che giunge, fuggiasco dal suo popolo, al monte Oreb (1Re 19,9-14). Ne riportiamo i passi più significativi. «Quando il Santo, egli sia benedetto, disse ad Elia: Cosa fai qui Elia?, Elia avrebbe dovuto dirgli: Signore del mondo, sono i tuoi figli, i figli di coloro che hai scelto, i figli di Abramo, Isacco e Giacobbe che hanno fatto la tua volontà nel mondo. Non solamente non disse questo, ma disse: Sono stato zelante nei confronti del Signore delle schiere; immediatamente il Santo, egli sia benedetto, cominciò ad usare parole di consolazione e gli disse: Quando mi sono rivelato per dare la Torah a Israele, si sono manifestati con me gli angeli del servizio che volevano unicamente il bene di Israele, come è detto: Dio disse: Esci, stai sul monte davanti al Signore. Ed ecco il Signore passa e un vento grande e forte, che spezza i monti e rompe le rocce davanti a lui. Il Signore non è nel vento. [...] Cosa fece il Santo, egli sia benedetto? Aspettò tre ore, ma Elia ancora restava nella sua posizione iniziale e disse una seconda volta: Sono stato zelante nei confronti del Signore delle schiere. In quel momento il Signore, egli sia benedetto, disse ad Elia: Vai, torna sulla tua strada verso il deserto di Damasco e ungi Hazael re di Aram, Jehù figlio di Nimshì re di Israele ed Eliseo figlio di Shafat di Avel Meholah come profeta al tuo posto. Quello che è nelle tue intenzioni, io non posso farlo ». Così commenta questo brano Benedetto Carucci Viterbi: « Lo zelo di Elia, che è contro il popolo di cui sottolinea l' abbandono del patto, è considerato una mancanza. Il profeta deve cercare di prendere le difese del popolo di fronte a Dio - si pensi a Mosè, che dopo l' episodio del vitello e quello degli esploratori è comunque completamente dedito al popolo - anche quando quest' ultimo sbaglia. E il paradosso del ruolo del profeta che rimprovera costantemente la collettività dei suoi errori, ma deve comunque prenderne le parti di fronte a Dio. Se il popolo non è difendibile direttamente, l' arringa deve basarsi sui meriti acquisiti con i progenitori: Elia in questo frangente persiste nella sua posizione anche dopo che Dio, attraverso la sua manifestazione, fa esplicito riferimento al dono della Torah, altro grande merito a cui avrebbe potuto riferirsi nella sua difesa del popolo » . Chiamato a fare dell' alleanza la ragione della sua vita e di quella del suo popolo (cfr. Is 42,1-4), il profeta non può e non deve esimersi dal denunciarne l' inosservanza e i tradimenti. Il suo obiettivo però rimane la conversione e la riconciliazione dei suoi fratelli (Ger 2,4 - 4,4; 30,1 -31,40), e lo coinvolge in una mediazione e intercessione realmente efficaci. Nella sua mediazione, il profeta incontra l' « ira di Dio » per il peccato del popolo. Osserva giustamente, a questo proposito, il teologo Jùrgen Moltmann: « Quella che l' Antico Testamento chiama ira di Dio, non rientra nella trasposizione antropomorfa degli affetti inferiori e umani in Dio, bensì in quella del pathos divino. La sua ira è amore ferito e quindi un modo di reagire all' uomo. L' amore è la sorgente e la possibilità di fondo per l' ira divina. Indifferenza nei confronti della giustizia e dell' ingiustizia significherebbe che Dio decade dall' alleanza. La sua ira invece è l' espressione dell' interesse che egli permanentemente nutre nei confronti dell' uomo. In quanto amore ferito, l' ira divina non è innanzi tutto un intervento di Dio, bensì la sua sofferenza per il male. E’ un dolore che promana dal suo cuore aperto. Egli soffre perché ama ardentemente il suo popolo » Solo in questo senso il profeta è voce «critica»: a partire dalle grandi opere compiute da Dio per il suo popolo, il profeta è in grado di svelare la vera natura e le reali dinamiche della storia presente, per illuminare il futuro o il non futuro che in esse si cela (cfr. Is 30,1 - 31,9). Guidato dallo Spirito del Signore, egli svela le motivazioni e i progetti che muovono le scelte umane e, confrontandole con la parola e il progetto di Dio, ne dichiara la validità o l' invalidità, ossia la capacità o meno di generare un avvenire sempre più pieno di speranza e di umanità.

3. CRISTO SIGNORE, PERFETTO E COMPIUTO PROFETA

Gesù di Nazaret unisce nella sua persona questi aspetti che costituiscono la vocazione profetica e, in quanto lui stesso è la pienezza della rivelazione, non solo li porta alla loro massima espressione, ma ne fornisce anche la spiegazione ultima. Parlando di Gesù, siamo abituati a conferirgli dei titoli (cioè gli appellativi che esprimono la sua identità e missione), ad esempio come messia, Signore, redentore, figlio dell' uomo, sommo sacerdote. Più raramente ci accostiamo a lui come a un profeta. Ciò, però, non deve destare meraviglia, soprattutto se teniamo in debito conto la testimonianza della sacra Scrittura. Scrive, infatti, Rinaldo Fabris: « Il primo e più antico modello, che sta alla radice degli altri modelli e titoli cristologici, può essere fatto risalire alla grande tradizione profetica. [...] Gesù stesso si autopresenta riferendosi al modello del profeta. [...] A questo modello profetico può ricollegarsi anche la ripresa dell' immagine del Servo, rappresentante ideale della comunità e incaricato di una missione eccezionale che va oltre i confini di Israele ». Approfondiamo queste affermazioni. Già la tradizione ebraica aveva pensato al messia come ad un profeta simile a Mosè e anche più grande. Questa linea di pensiero trova le sue origini nel testo di Dt 18,15.18 (Mosè dice: «Il Signore tuo Dio susciterà per te, fra i tuoi fratelli,in mezzo a te, un profeta come me; lui ascolterete ». E il Signore conferma: « Susciterò per loro, in mezzo ai loro fratelli, un profeta come te, porrò le mie parole sulla sua bocca, ed egli dirà loro tutto ciò che gli ordinerò »). Ma con l' esperienza dell' esilio in Babilonia e della distruzione di Gerusalemme, questa concezione del messia come nuovo e più grande Mosè viene integrata con la figura del giusto sofferente, che raggiunge il suo culmine nelle profezie sul Servo sofferente del Signore contenute nel libro di Isaia. Scrive Mario Cimosa: « Dietro questa situazione di sofferenza del Servo c' è l' esperienza della sofferenza fatta dagli anawim durante l' esilio. [...] Il loro pianto pieno di angoscia risuona in più di un salmo (Sal 44; 74; 79). Certo, questo "resto" dei giusti, vera anima della nazione, chiamati da Dio a convertire i compatrioti, ma spesso rifiutati da loro (pensiamo a Geremia), consegnati alla morte per i peccati degli altri, sono il vero Israele, servo del Signore (Is 41,8-16; cfr. 49,3) ». E a questa figura che Gesù in persona si rifà per annunciare il suo destino di morte e risurrezione e spiegarne il senso e la portata salvifica. Egli, infatti, ha avuto chiara coscienza di essere il profeta ultimo e definitivo (escatologico), e la sua passione viene linguisticamente descritta dai vangeli con continui riferimenti ai canti del Servo sofferente del profeta Isaia. A questo proposito Francesco Duci afferma: « Quegli oracoli ebbero per Gesù un' importanza quasi autobiografica. Gli servirono infatti come mezzo linguistico per esprimere la coscienza che aveva di sé e della sua missione, per formulare quel senso fondamentale che da sempre attribuiva al suo comportamento di assoluta dedizione al Padre e agli uomini. Gli servirono soprattutto nell' andare incontro alla morte, da vivere come l' ora del dono supremo di sé per la redenzione dei molti (cfr. Mc 10,45), in remissione dei loro peccati (cfr. Mt 26,28). Quei carmi commentano la sua vita e la sua morte, così come le ha intese lui stesso. Sono dunque lo specchio interposto del suo mondo interiore, la radiografia discreta del suo cuore di uomo interamente esistente per gli altri ». In quanto profeta escatologico, Gesù è l' unto dello Spirito, colui che possiede lo Spirito. Egli, in quanto Figlio di Dio, vive in comunione con lo Spirito trinitario: questa relazione sussiste fin dal momento del suo concepimento nel grembo verginale di Maria e lo accompagna lungo tutto il corso della sua vita. Ma il giorno del battesimo nel Giordano da parte di Giovanni, Gesù riceve un suo influsso ulteriore e specifico (quello di « Spirito profetico ») nella linea dei grandi profeti ebraici, in vista della missione che lo attendeva. Si potrebbe dire che, al Giordano, Gesù riceve l' investitura (la chiamata) a sommo profeta escatologico, nella linea del Servo del Signore, « consegnato » per la salvezza degli uomini. Come per i profeti anticotestamentari, la vocazione di Gesù a sommo profeta non è un processo di allontanamento dalla storia, ma semmai di inserimento sempre più profondo. E la storia di Israele ha, come abbiamo visto, una dimensione essenzialmente salvifica: la sua peculiarità non consiste nell' evoluzione dei rapporti socio-economico-politici, quali le forme dello stato e della produzione. La sua originalità sta nel legame di alleanza con Dio e nell' evoluzione di questo rapporto, testimoniata dalla speranza messianica. L' affermazione che Gesù, in quanto profeta escatologico, si inserisce sempre più profondamente nella storia del suo popolo, si situa precisamente a questo livello. Sempre Rinaldo Fabris scrive: « Gesù, che inaugura la sua attività con l' annuncio programmatico relativo all' irrompere del regno di Dio e lo rende presente con la sua attività liberatrice, si inserisce nell' attesa messianica che riguarda proprio l' instaurazione del regno di Dio per mezzo di una figura storica ». In questa prospettiva, Gesù si fa pienamente solidale con i suoi fratelli, cosciente di essere il supremo e nuovo mediatore tra Dio e il suo popolo; con lui e in lui l' alleanza si prepara a vivere il salto definitivo, passando dalle tavole di pietra, dove era incisa la legge, nel cuore degli uomini. Questo passaggio, che è una vera nuova creazione, permette di dire, con Josef Blank, che « Gesù non è soltanto l' unico e singolarissimo mediatore della salvezza; egli è al tempo stesso l' esemplare di ciò che si deve intendere per salvezza. Come dice chiaramente - ancora una volta - Giovanni, il Salvatore è lui stesso la salvezza ». L' esistenza di Gesù, come quella dei profeti, è dunque sacramentale a un duplice livello: in lui, infatti, si può ravvisare sia la pienezza definitiva del dono di Dio all' uomo, sia la pienezza ultima della risposta umana al dono di Dio. E’ per questo, la sua stessa persona diventa alleanza. Gesù ha una chiara consapevolezza di questa realtà, e la esprime invitando chi lo ascolta a vivere come lui. Gesù, infatti, pone sempre se stesso come fondamento della relazione con Dio e dichiara apertamente che non è possibile incontrare il Dio dell' alleanza al di fuori di lui. Egli critica e processa apertamente il peccato del popolo e dei singoli, svelandone la vera natura e le nefaste conseguenze per l' uomo, la società e il mondo. Ma il punto di partenza di tale critica rimane la sua particolarissima e personale esperienza di Dio e il conseguente modo di agire, e non un insieme di leggi o di tradizioni. L' obiettivo di questa critica rimane sempre, però, la riconciliazione. Quindi anche l' offerta di riconciliazione è un venire a lui: vale qui quanto affermato per l' alleanza. Gesù è, nella sua persona, riconciliazione e benedizione. Accogliere l' offerta di riconcilazione del regno di Dio significa accogliere la persona e la prassi di Gesù (ossia il vangelo) e condividerla esistenzialmente. Osserva Jean Guillet: « La santità manifestata dal vangelo di Gesù Cristo mette a nudo la menzogna nascosta in tutti i cuori (Rm 3,4), riduce al silenzio ogni bocca (Rm 3,19) e fa rifulgere il trionfo del Dio veridico. Ora questo trionfo è nello stesso tempo la salvezza dell' uomo. Perdendo il suo processo, il peccatore che accetta la sconfitta e rinuncia a difendere la propria giustizia (Fil 3,9) per credere al perdono, alla grazia e alla giustizia di Dio in Gesù Cristo, ottiene con ciò stesso la sua giustificazione (Rm 3,21-26), il suo pregio e il suo valore di fronte a Dio». Consapevole di essere lui stesso alleanza e riconciliazione, Gesù chiama a sé il nuovo popolo escatologico di Dio e se ne fa costruttore. Così commenta Mauro Laconi: « Il sogno profetico della convocazione di tutti i popoli attorno a Israele (Is 2,1-5; 25,6-8; 66,18-22; Mic 4,1-3) rivive nello spirito di Gesù che lo riformula con l' originalità suggeritagli dalla particolare e drammatica vicenda personale. Per questo, proprio pensando a tutti i popoli della terra, si dedica, sempre nello spirito dei profeti, a ricomporre il popolo di Dio disperso (Ez 34,16.23; Ger 50,6). suo sforzo personale di unire il gregge sbandato di Israele, dedicando tutte le sue energie a quel popolo stanco e sfinito come pecore senza pastore (Mt 9,36), persegue appunto lo scopo di farne il popolo messianico, il vero autentico popolo di Dio stretto attorno al messia, centro di attrazione e di salvezza per tutte le genti ». Il culmine dell' opera profetico-messianica di Gesù è il mistero pasquale: qui egli spinge al massimo la sua solidarietà salvifica e riconciliatrice con Dio e con gli uomini. La morte di Gesù rappresenta il compimento del suo essere Servo e della sua autodedizione incondizionata per la vita degli uomini. La verità della persona di Gesù (cioè della sua identità, del senso della sua vita) emerge e risplende nel suo amore fino alla morte, e da quella morte particolare, storicamente datata e pure singolarissima, scaturisce la salvezza di tutti. Con la sua morte, Gesù non è tanto colui che sacrifica qualcosa a Dio nel culto, ma è colui che si dona come sacrificio vivente, cosciente e personale al Padre. La morte di Gesù è un sacrificio esistenziale, reale: è l' espressione perfetta della religiosità profetica, che ha sempre combattuto una relazione di alleanza con Dio puramente e solamente rituale, senza alcun influsso nella vita e nei rapporti quotidiani. In questo senso si deve riconoscere che è tutta l' esistenza umana di Gesù culminata nella sua morte e risurrezione che riconcilia l' umanità intera con Dio. In Gesù si trova il senso ultimo della vocazione profetica: egli è l' alleanza di riconciliazione, colui che supera la maledizione facendosi egli stesso maledizione, la possibilità reale di speranza e di futuro, la benedizione definitiva del Padre da cui scaturisce lo Spirito che rinnova l' uomo perché lo rende grazia per se stesso, per l' umanità, per l' universo. Questo approccio al mistero dell' incarnazione redentrice proietta la sua luce nel campo sia dell' ecclesiologia (la riflessione teologica sull' identità e la missione della comunità cristiana, sia della mariologia (la riflessione teologica su Maria e la sua missione nella storia). Nel campo dell' ecclesiologia, perché non si può dare la Chiesa senza Gesù: la comunità di fede è, infatti, il sacramento vivente del Risorto nella storia, la sua presenza attiva e operante in mezzo agli uomini di ogni tempo e di ogni cultura, chiamata a prolungarne la missione liberatrice di salvezza. Se la Chiesa è dunque chiamata ad essere il volto di Gesù nella storia, non potrà fare a meno di esprimere anche l' aspetto e la coscienza profetica del Cristo. Nel campo della mariologia, perché la missione della Vergine non si può ridurre al puro fatto biologico dell' essere madre di Gesù. L' esistenza di Maria è stata contrassegnata in modo indelebile dal suo credere e dal suo aprirsi al discepolato del suo Figlio. In questo senso, l' esperienza personale della Vergine è in grado di mostrare all' intera Chiesa (di ogni tempo e luogo) quel che deve essere, ossia la comunità di coloro che condividono l' esistenza e gli atteggiamenti del Cristo, non ultimo quello profetico.

4. È POSSIBILE UN PARALLELISMO TRA CRISTO PROFETA E MARIA A LA SALETTE?

A La Salette Maria sembra effettivamente mostrare gli atteggiamenti fondamentali della vocazione profetica testimoniata dalla sacra Scrittura e vissuta da Gesù. Cercheremo pertanto di ritrovare, all' interno dell' apparizione, gli elementi che abbiamo evidenziato nei paragrafi precedenti. Il profeta è tale in base alla chiamata: è la vocazione ricevuta dal Signore che garantisce la verità della sua parola e della sua missione. L' autocoscienza vocazionale ha quindi un valore apologetico: deve giustificare geneticamente (cioè nella sua origine) la genuinità di una funzione carismatica. Maria, a La Salette, dice: «Avvicinatevi, figli miei, non abbiate timore, sono qui per annunciarvi un grande messaggio. [...] Da quanto tempo soffro per voi! Se voglio che mio Figlio non vi abbandoni mi è stato affidato il compito di pregarlo incessantemente per voi. [...] Per quanto pregherete o farete, mai potrete compensare la pena che mi sono presa per voi ». Ci troviamo di fronte a un attestazione di carattere vocazionale: Maria presenta qui la sua propria e peculiare vocazione alfine di garantire - chi ascolta - sulla verità della sua missione profetica. La vocazione particolare cui la Vergine fa riferimento consiste nella preghiera («Mi è stato affidato il compito di pregarlo incessantemente per voi ») e nell' annuncio della parola («Sono qui per annunciarvi un grande messaggio»). Sia la preghiera che 1' annuncio della parola hanno un preciso punto di riferimento, colui che Maria chiama «mio Figlio ». Ciò significa che la vocazione di Maria è essenzialmente relazione al Cristo, e che non può essere pensata al di fuori di questo rapporto (VMFJS 19): Maria prega il Signore Gesù e annuncia il Signore Gesù. Il vangelo di Giovanni, raccontando l' episodio delle nozze di Cana, dove per la prima volta parla della Vergine (Gv 2,1-12), registra una dinamica simile: Maria prega suo Figlio (Gv 2,3b: «La madre di Gesù gli disse: Non hanno più vino ») e annuncia suo Figlio (Gv 2,5: «La madre dice ai servi: Fate quello che vi dirà»). Preghiera e annuncio della parola hanno però anche un altro punto di riferimento altrettanto specifico: coloro che la Vergine chiama « voi/figli miei ». In quanto vocazione in Cristo, la vocazione di Maria è relazione alla Chiesa e all' umanità. Anche questa realtà è testimoniata dal vangelo di Giovanni: nell' ora della croce Gesù si rivolge a sua madre e le affida il discepolo amato: « Donna, ecco il tuo figlio! » (Gv 19,26b). Va dunque sottolineato come Maria non possa essere pensata fuori da questa relazione con gli uomini. La vocazione di Maria significa dunque relazione al Cristo e, per suo mezzo, relazione all' uomo e alla sua storia (VMFIS 21). La Regola di vita dei Missionari di Nostra Signora de La Salette così descrive l' autocoscienza vocazionale dei suoi membri alla luce dell' apparizione: «Come discepoli di Cristo, viviamo in comunione con lui. Come apostoli, seguendo il suo esempio, ci lasciamo guidare dallo Spirito perché si compia il disegno d' amore del Padre. La nostra vita sarà caratterizzata dalla preghiera e al tempo stesso dall' impegno apostolico a servizio degli uomini per il regno di Dio» (RdV, prima parte, n. 24). Sorprendono molto (se addirittura non sconcertano), però, le parole che Maria usa a La Salette per qualificare la sua preghiera: «Se voglio che mio Figlio non vi abbandoni...». Ed espressioni simili userà più in là per definire l' annuncio della parola: « Se il mio popolo non vuole sottomettersi, sono costretta a lasciare libero il braccio di mio Figlio. Esso è così forte e così pesante che non posso più sostenerlo ». Dal momento che queste espressioni manifestano l' autocoscienza vocazionale di Maria (preghiera e annuncio della parola), vanno lette in parallelo: non bisogna cioè trovare una spiegazione singola e autonoma per ognuna di loro, ma una chiave di interpretazione comune. Questa chiave va cercata nella sacra Scrittura. Abbiamo ricordato l' episodio delle nozze di Cana, nel vangelo di Giovanni; ora anche qui la preghiera di Maria e il suo annuncio della parola incontrano un atteggiamento almeno imprevisto da parte del Figlio, Gesù. Alla richiesta di Maria: « Non hanno più vino » (Gv 2,3b), egli risponde: « Che ho da fare con te, o donna? Non è ancora giunta la mia ora » (Gv 2,4). Tradotta letteralmente, la frase di Gesù suona: « Che vi è tra me e te, o donna », una formula ben conosciuta dal linguaggio biblico. Essa, infatti, viene adoperata quindici volte nell' Antico Testamento e cinque volte nel Nuovo. Tale formula sta abitualmente ad indicare una divergenza, a volte lieve a volte radicale, tra due o più interlocutori. L' evangelista Giovanni la adotta e la usa nel racconto di Cana per far risaltare allora la divergenza di pensiero esistente tra Gesù e sua Madre. Infatti, mentre la Vergine nota la mancanza del vino materiale, Gesù, invece, porta il discorso ad un altro livello, il livello spirituale, ossia quello della sua ora (passione-morte-risurrezione). Allora egli offrirà un altro vino, cioè la sua parola rivelatrice, che si adempie perfettamente nell' evento pasquale. Nel vangelo di Giovanni si può assistere spesso, nei discorsi di Gesù, a questo spostamento di piano. Scrive Aristide Serra: « Gesù, dialogando con le persone che lo avvicinano, con frequenza parla in parabole (cfr. Gv 16,25.29), passa cioè dal piano delle realtà materiali a quello delle realtà spirituali, di cui quelle materiali sono figura. E quando Gesù parla in questo modo, i suoi interlocutori non capiscono. Occorre allora chiarire il discorso. Il che avviene in due maniere: o è Gesù che spiega il suo pensiero subito dopo, oppure sarà il mistero pasquale a far luce su ciò che lì per lì era rimasto oscuro ». A La Salette le parole: « Se voglio che mio Figlio non vi abbandoni... » sembrano evocare, come a Cana, una situazione simile: una divergenza tra Maria e suo Figlio. Divergenza il cui significato sarebbe che Gesù, il Figlio, ha intenzione di abbandonare l' uomo e che Maria fa di tutto per evitarlo, scongiurandolo di non far cadere il suo braccio pesante (castigatore?). Ma le cose stanno realmente così? No, non stanno così. Lasciamoci ancora guidare dall' episodio delle nozze di Cana. Ai fini della sua corretta comprensione, infatti, non basta rilevare la divergenza di pensiero esistente tra Maria e Gesù: bisogna chiedersi qual è la funzione che Giovanni le attribuisce. La risposta si trova nelle parole di Maria stessa: « Fate quello che vi dirà» (Gv 2,5). La Vergine non aveva compreso il discorso di Gesù, ma si rimette completamente e incondizionatamente alla sua volontà: la divergenza di pensiero ha quindi la funzione positiva di suscitare la fede, e pertanto di unire indissolubilmente il Figlio e la Madre. Quello che noi avremmo definito un blocco si rivela, in realtà, la più grande forma di comunicazione e di condivisione. Scrive ancora Aristide Serra: «In presenza del Cristo messia, nuovo Mosè, fiorisce sulle labbra di Maria l' espressione di fede che era tipica di tutto il popolo eletto in ordine all' alleanza. Se Israele prometteva: "Quanto il Signore ha detto noi lo faremo" (Es 19,8; cfr. 24,3.7), ora Maria dice: "Quanto egli vi dirà, fatelo" (Gv 2,5) ». A La Salette, si ritrova il medesimo dinamismo: la funzione della divergenza (« Se voglio che mio Figlio non vi abbandoni...») non è negativa, ma positiva («Mi è stato affidato il compito di pregarlo continuamente per voi»). Ci troviamo di fronte non all' opposizione irriducibile di due persone che la pensano diversamente tra loro, ma all' abbandono totale e incondizionato della Madre nel Figlio. Meglio ancora, all' abbandono di fede della Madre nel mistero pasquale del Figlio (come a Cana, Gv 2,5) e alla sua partecipazione ad esso (come presso la croce, Gv 19,25). Se la funzione di questa parte del discorso di Maria la sua vocazione alla preghiera) è positiva, ciò vuol dire che tale positività dovrà essere ritrovata anche nelle parole che qualificano la vocazione di Maria all' annuncio della parola: « Se il mio popolo non vuole sottomettersi, sono costretta a lasciare libero il braccio di mio Figlio. Esso è così forte e così pesante che non posso più sostenerlo ». Non si può negare che anche qui la prima impressione sia quella di un Cristo giudice tremendo che viene disperatamente trattenuto da Maria; impressione confermata, purtroppo, da una secolare predicazione che ha amplificato questi temi, e oggi sostenuta dal movimento melanista, che gioca tutte le sue carte facendo leva sulle paure di fine millennio. Di fatto, però, questa posizione risente della mancanza di approccio biblico e teologico alle parole di Maria. Come abbiamo visto, la vocazione profetica annovera tra i suoi caratteri principali la solidarietà e l' intercessione mediatrice del mistero pasquale Gesù porta questi atteggiamenti alla loro massima espressione e spiegazione. Nell' ora di Gesù è presente Maria, che, come discepola perfetta, condivide con lui la missione salvifica, entrando in maniera del tutto singolare in questo mistero di solidale mediazione. Quindi il braccio pesante di cui Maria parla deve essere trovato all' interno di questa esperienza, non fuori di essa. Il che significa ritornare nuovamente alla sacra Scrittura. Proprio la parola di Dio ci offre il passo di Es 17,8-13a, che può aiutare a comprendere l' esatto significato delle parole della Vergine. Lo riportiamo interamente. « Allora Amalek venne a combattere contro Israele a Refidim. Mosè disse a Giosuè: "Scegli per noi alcuni uomini ed esci in battaglia contro Amalek. Domani io starò ritto sulla cima del colle con in mano il bastone di Dio". Giosuè eseguì quanto gli aveva ordinato Mosè per combattere contro Amalek, mentre Mosè, Aronne e Cur salirono sulla cima del colle. Quando Mosè alzava le mani, Israele era il più forte, ma quando le lasciava cadere, era più forte Amalek. Poiché Mosè sentiva pesare le mani dalla stanchezza, presero una pietra, la collocarono sotto di lui ed egli vi sedette, mentre Aronne e Cur, uno da una parte e l' altro dall' altra, sostenevano le sue mani. Così le sue mani rimasero ferme fino al tramonto del sole. Giosuè sconfisse Amalek e il suo popolo » (Es 17,8-13a). Questo brano presenta molti elementi comuni con l' evento de La Salette. Li elenchiamo: - la montagna come luogo dell' azione salvifica; - la situazione di pericolo in cui il popolo si trova; - le braccia tese; - la fatica dovuta alla tensione delle braccia; - la presenza di persone che sostengono queste braccia; - la salvezza in certo qual modo connessa con il sostenere le braccia; - l' attribuzione al Signore dell' opera di salvezza; - il popolo come beneficiano della salvezza. Permangono comunque delle differenze, che riportiamo egualmente: - il salire sulla collina di Es 17,10 rispetto al movimento di discesa presente nell' apparizione; - la sequenza stare ritti-sedersi di Es 17,11-12 rispetto alla sequenza inversa sedersi-alzarsi dell' apparizione. Queste differenze possono essere spiegate a partire dalla diversità esistente tra l' evento fondante della fede di Israele e quello della fede cristiana. Israele trova la sua origine e identità nel fatto dell' esodo dall' Egitto, e lo ha letto come un salire verso il Signore: « Mosè salì verso Dio e il Signore lo chiamò dal monte, dicendo: "Questo dirai alla casa di Giacobbe e annunzierai agli Israeliti: Voi stessi avete visto ciò che io ho fatto all' Egitto e come ho sollevato voi su ali di aquile e vi ho fatti venire fino a me. Ora, se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà fra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra! Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa". Queste parole dirai agli Israeliti» (Es 19,3-6). La Chiesa trova la sua origine e la sua identità nella kenosi del Signore Gesù, cioè nel suo abbassamento: « Cristo Gesù, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio lo ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre » (Fil 2,6-11). La ragione della differenza è quindi di natura cristologica, e serve a far risaltare la novità irriducibile e la centralità assoluta del Signore Gesù nel processo della rivelazione divina. Anche se non esiste un consenso unanime tra i biblisti, alle braccia innalzate di Mosè viene attribuito un valore salvifico: esse sono segno di intercessione efficace presso il Signore a favore di tutto il popolo (« Quando Mosè alzava le mani, Israele era il più forte », Es 17,11a). L' intercessione però risulta essere una missione faticosa (« Mosè sentiva pesare le mani dalla stanchezza. [...] Quando le lasciava cadere, era più forte Amalek », Es 17,12a.1lb). Di fatto, però, la tradizione ebraica ha vi-sto in questo gesto la funzione mediatrice di Mosè in rapporto al peccato del popolo, confermando quindi la possibilità di vedere Mosè come il profeta intercessore. Il rabbino Eleazaro di Modi' in, vissuto nel Il secolo d.C., così commenta l' azione di Mosè: « Pesante era il peccato sulle mani di Mosè in quell' ora, ed egli non poteva reggerlo. Cosa fece? Si rivolse allora ai meriti dei padri, come è detto: Presero una pietra e la collocarono sotto di lui (ecco il merito dei padri), ed egli si sedette sopra di essa (ecco il merito delle madri) ». La fatica di sostenere le braccia di Mosè viene dunque messa in relazione con il peccato del popolo: la loro eventuale caduta significherebbe l' incomunicabilità della salvezza e, quindi, la non esistenza per il popolo di Dio. Mosè, profeta intercessore, è allora colui che si fa solidale con il suo popolo, respingendo la tentazione di separare la propria vita e la propria salvezza da quella dei suoi fratelli: le sue braccia innalzate sono il segno vivente di questa solidarietà faticosa. Mosè rimarrà fedele a questa sua vocazione anche nel momento estremo della sua esistenza, quando Dio gli negherà l' ingresso nella terra promessa (Dt 3,25ss) e gli preannuncia la morte. Nella morte di Mosè trovano compimento le sue braccia innalzate. Scrive Alberto Mello: « Secondo l' interpretazione spirituale del midrash, è proprio grazie al sacrificio di questa sua morte alle soglie della terra sognata, senza poter vedere realizzate le promesse di Dio, che Mosè ottiene il perdono dei peccati di Israele. Anche ora gli si pone la scelta fra la propria salvezza e quella del popolo, ma neppure questa volta ha esitazioni: "Dio disse: Mosè, se tu vuoi che prevalga (la preghiera) "fa' che io passi", annulla (la preghiera) "perdona loro", mentre se vuoi che prevalga il "perdona loro" devi annullare il "fa' che io passi". Quando Mosè nostro maestro udì questo, disse: "Signore del mondo, perisca Mosè e mille come lui, ma non si perda un' unghia di uno solo di Israele!" (Devarim Rabba, VII, 11)" ». La medesima dinamica è sottesa all' evento dell' apparizione e alle parole di Maria. Le braccia innalzate di Mosè trovano la loro spiegazione ultima nel braccio innalzato di Cristo crocifisso. Il commento di Alberto Mello così prosegue: « Nell' ascesa solitaria della montagna verso la nube oscura in cui era Dio (Es 20,21), Mosè è diventato l' amico di Dio. (…) L' intercessore è l' uomo di Dio che ha il coraggio di scendere dalla montagna per amore dei suoi fratelli, a costo di dare la vita per loro. In questo senso l' esempio di Mosè resterà il paradigma spirituale di ogni altra grande esperienza di intercessione: da Elia, che ripercorrerà lo stesso itinerario dell' Oreb, dalla solitudine alla solidarietà con il popolo infedele (1Re 19,1-18); a Geremia che si rifà a lui come a un modello (Ger 15,1); fino alla trasfigurazione di Gesù, che trova in Mosè ed Elia la sua testimonianza profetica (Mt 17,1-9 e paralleli) ». Nel braccio innalzato di Gesù, di cui Maria parla a La Salette, va scoperta non la sua ira castigatrice, ma piuttosto la sua autodedizione totale al Padre per la salvezza degli uomini. Il « braccio di mio Figlio » deve quindi rimanere innalzato, e Maria partecipa all' autodonazione salvifica di Gesù al Padre sostenendo le braccia di suo Figlio, così come Aronne e Cur sostennero le braccia di Mosè. Come Gesù si fa solidale con il suo popolo fino alla morte (Eb 2,14-18), così Maria vive con lui la fatica della nuova creazione (Gv 19,25-27; Ap 12,1-18): la vera intercessione si fa comunione solidale. Nel vangelo di Giovanni Gesù fa questa osservazione: « La donna, quando partorisce, è afflitta, perché è giunta la sua ora; ma quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più dell' afflizione per la gioia che è venuto al mondo un uomo » (Gv 16,21). E Maria a La Salette dice: « Da quanto tempo soffro per voi! (…) Mai potrete compensare la pena che mi sono presa per voi ». Sono parole forti, che però consentono di scoprire l' infinita serietà del mistero dell' incarnazione redentrice e della sollecitudine divina per l' umanità. Il braccio del Figlio è la scuola continua dell' uscita (esodo) dalla propria solitudine alla condivisione e alla comunione che caratterizzano il profeta, l' uomo nuovo, « creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera » (Ef 4,24b). Proprio perché è chiamata a sostenere il braccio di suo Figlio, Maria può vivere autenticamente la solidarietà con gli uomini e condividerne la storia. A questo proposito, si rivela assai significativo il fatto che ella parli ora in francese ora nel dialetto locale e che faccia uso di immagini e di termini accessibili alla comprensione dei ragazzi. Colpisce, inoltre, il suo abbigliamento: è quello delle donne del popolo, costituito da un abito lungo, un grembiule ampio intorno alla vita, uno scialle incrociato e annodato dietro la schiena, una cuffia da contadina. Con un particolare in più: un diadema orlato di rose sul capo. Nella sacra Scrittura le vesti vengono considerate come il prolungamento della persona, ne garantiscono la dignità e rivelano la sua funzione sociale: la condivisione del vestito quotidiano delle contadine dell' epoca mostra Maria pienamente inserita nella storia del suo popolo, dalla parte dei poveri. La Vergine non è spettatrice disinteressata, ma regina (indossa sul capo il diadema) impegnata a esercitare la regalità ricevuta dal Padre e dal Figlio per la salvezza e la vita delle persone a lei affidate (Gv 19,25-27; LG 60-62). Scrive Stefano De Fiores: « L' assunzione comporta un cambiamento radicale in Maria con notevoli conseguenze ecclesiali ed antropologiche. [...] A somiglianza di Cristo e dei fedeli, Maria viene innalzata, elevata e intronizzata. Con queste immagini spaziali, la Bibbia intende esprimere un cambiamento non di luogo, ma di situazione. [...] Il corpo animato di Maria, cioè il suo essere globale, si trova definitivamente presso Dio ed insieme è presente nel mondo in maniera nuova. [...] La trasformazione di Maria sotto l' influsso dello Spirito le consente due prerogative: la presenza nei diversi tempi storici e spazi culturali [...] e l' esercizio in actu della maternità spirituale in quanto nulla le impedisce l' universalità di influsso nella comunicazione della grazia divina. [...] Maria è dunque la serva trasformata da Dio in regina, perché chiamata a regnare con Cristo e a condividerne il governo d' amore nel mondo » La Salette, dunque, Maria si mostra mediatrice, ma non perché si frappone tra il braccio di suo Figlio e gli uomini. E tale, semmai, proprio perché nel braccio di suo Figlio incontra gli uomini, il loro bisogno di riconciliazione, e vi si apre in maniera incondizionata: « Eccomi, sono la serva del Signore » (Lc 1,38b). In realtà, ella ricorda la vocazione profetica della Chiesa intera ad essere, in Cristo, luce delle genti (la luce è una costante di tutta l' apparizione), segno e strumento di riconciliazione e di conversione. La Chiesa, infatti, altro non è se non la concretizzazione storica e visibile del braccio innalzato del Figlio di Dio di cui la Vergine parla nell' apparizione. Inoltre, proprio perché mediatrice solidale, Maria è, a La Salette, voce « critica » per il suo popolo, piena « di forza con lo Spirito del Signore, di giustizia e di coraggio, per annunziare a Giacobbe le sue colpe, a Israele il suo peccato» (Mic 3,8). E richiama, con forza, all' alleanza fatta carne nel suo Figlio. In conclusione di questo paragrafo, vorremmo nuovamente citare le riflessioni di Stefano De Fiores: « Le apparizioni di Maria illuminano la persona di Maria e la sua funzione in continuità con i dati biblici, che costituiscono la vera e fondamentale mariofania. Maria è identificata sempre come Madre di Gesù, ma non appare personaggio del tempo passato. Ella si presenta come persona viva, luminosa, glorificata, che si interessa dei suoi figli e della sorte del mondo. [...] Maria appare per far rivivere gli atteggiamenti e l' atmosfera dell' unico vangelo. [...] Maria continua ancora ad essere la serva del Signore e a condurre a lui ».

5. LINGUAGGIO DELL' APPARIZIONE:

«Ciò che sorprende chi si avvicina all' evento de La Salette è senz' altro il linguaggio usato da Maria. Abbiamo avuto modo di vedere come sia fatto di immagini e pensieri duri, a volte minacciosi, a volte invece capaci di far balenare la luce della speranza. Comunque sia, un linguaggio forte, che non ammette mezze misure: patate che non si trovano più; noci che si guastano; uva che marcisce; bambini vittime della malattia e della morte; lavoratori che si burlano della religione e della domenica; bestemmie; persone che si comportano come cani perché in Quaresima comprano e mangiano carne; carestia e fame; rocce che si trasformano in mucchi di grano e patate che nascono da sole nei campi... Il primo passo da fare consiste, allora, nello scoprire la fonte di questo linguaggio, tenendo presente che cosa è il linguaggio stesso. Se qualcuno ci chiedesse che cosa è una lingua, forse risponderemmo subito che si tratta di un insieme di parole sottoposto a precise regole di grammatica. Questo è vero, ma non è tutto. Le parole, le frasi, non sono entità a sé stanti, ma indicano il rapporto che ci lega alle cose, agli altri o agli eventi da essi significati. In pratica, il linguaggio è la chiave che permette alle persone di entrare nella realtà, di ordinarla, di comprenderla e di entrare in relazione con essa. Parlare in un certo modo piuttosto che in un altro, scegliere alcune espressioni invece di altre, è segno della comprensione che una persona ha di se stessa e del mondo che la circonda. Un autore contemporaneo, Mario Pollo, afferma: «Il mondo dell' uomo è il suo linguaggio, dove il termine linguaggio sta a indicare la facoltà umana, e cioè la capacità umana, di produrre linguaggi, e non un linguaggio particolare. E’ il linguaggio che fornisce all' uomo la disponibilità delle potenzialità positive e negative del mondo. Lo stesso mondo materiale è indisponibile senza la mediazione del linguaggio organizzata dalla cultura sociale. La natura non dà all' uomo nessuna possibilità se essa non è letta e organizzata culturalmente da uno o più linguaggi. D' altronde lo stesso Antico Testamento narra che Dio dona all' uomo la signorìa sul creato facendogli dare un nome agli animali della campagna e agli uccelli del cielo che egli aveva creato. L' azione di dare forma linguistica alla realtà della creazione è quella che consente all' uomo di utilizzare i doni, o potenzialità, di cui la stessa creazione è portatrice ». Quindi, il fatto che Maria usi, a La Salette, un determinato linguaggio va visto come segno della sua comprensione degli eventi e delle persone: in altre parole, il parlare di Maria ci porta all' esperienza di Maria, a quello che lei ha di più profondo, al cuore della sua persona, della sua vita e del suo relazionarsi alla storia. Al centro della persona di Maria c' è Dio: è la piena di grazia (Lc 1,26-28), la Vergine che accoglie, nello Spirito, il mistero divino che si manifesta nella persona del suo Figlio Gesù (Lc 1,29-38). Maria, dunque, comprende se stessa e il mondo a partire da Gesù: il suo linguaggio nasce e si radica in questo evento fondamentale (Lc 2,15-19; 2,22-35; 2,41-50; 11,27-28). Ma le parole usate dalla Vergine a La Salette, nello stesso tempo, fanno parte del patrimonio tipico e abituale di quella gente contadina: esse riflettono il mondo di quelle persone, fatto di patate, di uva, di insetti, di offese, di dolore, di morte, di grano marcio e di grano buono, di pietre e sassi. Istruita dalla fede di Israele e dalla sequela del suo Figlio, Maria sperimenta che Dio non vuole rimanere lontano dal mondo: egli è colui che viene nella vita degli uomini, e che non può essere pensato senza fare riferimento al suo popolo. Commentando la vocazione di Mosè e la rivelazione del nome di Dio (Es 3,13-15), un teologo contemporaneo dice: « L' agiografo lascia chiaramente intendere che un dio senza popolo, un padre senza figlio, fosse pure Jhwh, non sarebbe altro che un povero Elohim errante al pari dell' arameo, errante egli pure, ma ognuno per conto suo. Prima di potersi definire in rapporto a Israele, Dio era dunque un povero Elohim in mezzo a tanti altri, senza un popolo che potesse rivendicarlo come suo Signore e padre. Piantando un giardino in Eden per collocarvi Adamo, strappando Israele al luogo pre-relazionale per farne il suo popolo e divenendo a sua volta il loro Dio, il Signore va oltre la sua precedente condizione di esistenza e si avvia verso quella condizione nuova che sarà per lui il punto di non ritorno ». Quindi per Dio è essenziale «stare con», condividere cioè la vita di coloro che lo riconoscono: la conseguenza più naturale è il sentire come proprio il mondo di coloro cui ci si è legati. Come Dio si lega alla storia, così anche il credente e, a maggior ragione Maria, viene inserito dallo Spirito in questo dinamismo divino, che culmina in Gesù: nessun luogo e nessuna cultura gli sono estranei, perché tutti vivono e si muovono immersi nella vicinanza di Dio. Sulla base di queste coordinate, si può interpretare il discorso della Vergine come parlare profetico: la parola profetica, infatti, nasce e si sviluppa nel momento in cui Dio, nel suo agire e nella sua fedeltà all' alleanza, diviene « chiave di lettura » delle esperienze e degli eventi. Dal momento che l' agire e la fedeltà divini si fanno carne e sangue in Gesù (Gv 1,14.17-18), si deve riconoscere che la parola profetica nasce e si sviluppa nella sua sequela: solo nel confronto vitale con la persona e la prassi del Rabbi di Nazaret si è in grado di contemplare la profondità dell' alleanza liberamente stabilita dal Padre con Israele e diretta a ogni popolo. L' interpretazione dell' uomo, del mondo e della storia realizzata da Maria a La Salette sono dunque segno del discepolato della Madre del Signore: discepolato costruito e maturato nell' ascolto della parola di Dio definitivamente rivelata e compiuta dal messia d' Israele. E questa parola annunciata dal Cristo che modella gli atteggiamenti vitali di Maria. Con il termine «atteggiamento» si è soliti indicare un modo di essere della persona che coinvolge le sue diverse componenti: quella cognitiva (ossia le conoscenze, le valutazioni, le informazioni, le motivazioni); quella comportamentale (il modo con cui ci si dispone ad agire); e quella affettiva (le emozioni, gli stati d' animo, i sentimenti). E’ sempre questa parola che costruisce e determina il quadro simbolico di tutta l' apparizione. E infatti da qui che si deve partire per cogliere l' esatta «lunghezza d' onda » in cui Maria si è posta il 19 settembre 1846. Ogni atto concreto del comunicare e del parlare, ossia le parole e le frasi che vengono di fatto usate, non appartengono solamente al campo del comportamento umano, della comunicazione e del parlare generico; né appartengono semplicemente a una lingua ben definita. Esse fanno parte di un determinato e distinto modo di parlare, che il filosofo Ludwig Wittgenstein definisce «gioco linguistico». Questa definizione nasce dall' analogia che intercorre tra i vari usi della lingua e i diversi giochi: un gioco, per essere tale, ha bisogno di regole che ne definiscano i partecipanti e gli obiettivi. Prendiamo gli scacchi. Qui l' identità dei vari pezzi, come il re o la torre, viene individuata non dalla loro forma (il re ha la corona più grande, la torre imita quelle vere, il cavallo lo stesso, il pedone è più piccolo, e così via), ma dalle regole convenzionali che fissano i loro movimenti: ogni pezzo può fare solo alcuni spostamenti e non altri che spettano a pezzi differenti. Analogamente, il significato di una o più espressioni linguistiche è determinato dalle regole con cui esse vengono usate in certe determinate situazioni. Queste regole costituiscono la logica particolare di ogni gioco linguistico, vale a dire la grammatica che gli permette di essere compreso, e che deve essere sempre osservata pena la non comunicazione. Alcuni esempi di «giochi linguistici »possono essere: - l' elaborare un' ipotesi scientifica e verificarla, - l' impersonare un personaggio in teatro, - il chiedere, - l' imprecare, - il salutare, - il pregare. Volendo fare un esempio, non è possibile stilare un referto medico allo stesso modo di una poesia: se qualcuno facesse così, il suo messaggio non verrebbe capito. Il referto medico obbedisce alle regole del suo gioco linguistico, e questo gli dà una certa forma linguistica; la poesia obbedisce al proprio, che le conferisce una forma sua particolare, diversa da quella del referto medico. Va dunque individuato il « gioco linguistico » proprio dell' apparizione de La Salette, ossia la grammatica propria che ordina logicamente l' atteggiamento insieme di denunzia e di speranza, la dialettica peccato-conversione, il coinvolgimento personale nel dramma in corso, il susseguirsi dei pensieri e delle immagini, rendendoli significativi a chi ascolta. Il «luogo » dove cercare è, come abbiamo detto, la parola di Dio, perché è questa che si pone al centro degli atteggiamenti vitali di Maria. Analizzando le sue forme espressive, si può fondatamente ritrovare (e riconoscere) questo «gioco linguistico » nella tipica struttura teologico-esistenziale del rib profetico (o controversia bilaterale) quale ci è attestato dalla sacra Scrittura: il rib, controversia bilaterale, è il « gioco linguistico » che permette di comprendere in maniera significativa l' apparizione de La Salette. Nel suo articolarsi, la controversia bilaterale si presenta come un processo intentabile solo da due persone che si trovino tra loro in regime di alleanza e concerne le infrazioni o i tradimenti di quest' ultima: i contendenti però non vogliono o non possono risolvere la loro vertenza ricorrendo a un giudice. Lo scopo del rib non è, comunque, quello di sancire la rottura dell' alleanza e conseguentemente la condanna del traditore (la morte, nel diritto sacrale dell' antico Oriente), ma è costituito dalla ricerca di un accomodamento tra le parti in lite, in modo tale da rendere nuovamente funzionante l' alleanza che li lega, in tutti i suoi aspetti. Ricordando il cammino sin qui compiuto, sarebbe però limitativo considerare il rib come un semplice genere letterario, ossia una pura costruzione linguistica fatta di regole che articolano la scelta e il succedersi delle parole o delle immagini. In quanto « gioco linguistico», ossia manifestazione della lingua (che, come abbiamo visto, costituisce la forma della vita umana in quanto tale), il rib manifesta una particolare percezione della realtà, di se stessi, del mondo, della storia, di Dio. E’ espressione letteraria di un' esperienza umana e insieme divina: è la simbolizzazione dell' incontro tra la realtà di Dio e la realtà dell' uomo nel concreto della storia. In altre parole, il « gioco linguistico » del rib introduce alla conoscenza esistenziale di Dio e alla conoscenza esistenziale della persona umana, e la rende possibile. E’ il suo linguaggio rivela il volto di un Dio appassionato che, di fronte al fallimento umano, si impegna ad aprire un orizzonte gratuito di speranza perché è il Dio con noi: la logica intrinseca al rib è, dunque, la logica dell' incarnazione, la logica di Gesù, la logica della croce e della risurrezione. Un noto teologo contemporaneo, Riccardo Tonelli, afferma: « E’ vero che il mondo di Dio e quello dell' uomo sembrano lontani e incomunicabili. Dio è il totalmente altro, l' ineffabile e l' indicibile. L' uomo è lontano da Dio perché è creatura e perché ha deciso un uso suicida della sua libertà e responsabilità nel peccato. Dio e l' uomo sono i "lontani" per definizione e per scelta. Questa però non è l' ultima parola. La parola decisiva è invece Gesù di Nazaret. In lui, Dio si è fatto vicino all’uomo: e diventato "volto" e "parola". E l' uomo è stato ricostruito in una novità così insperata da diventare il volto e la parola di Dio. In Gesù di Nazaret i lontani sono ormai diventati i vicini", in una realtà nuova che ha trasformato radicalmente i due interlocutori. Sempre la fede della Chiesa ha riconosciuto a Gesù il titolo di "mediatore". Egli non è solo colui che fa la mediazione. E’ la mediazione fatta persona: una persona nuova in cui Dio e l' uomo sono in dialogo pieno e totale. La grande mediazione è Gesù "uomo"; per questo l' umanità dell' uomo è, in piccola misura e in potenzialità totale, mediazione tra il mondo della trascendenza e quello dell' immanenza. [...] L' umanità quotidiana dell' uomo è il sacramento in cui Dio si fa presente e vicino, per attuare il suo progetto di salvezza ». Quindi « l' evento dell' incarnazione indica l' educabilità di ogni cultura, la possibilità, cioè, di far balenare da ogni cultura umana i segni della speranza e della redenzione ». Un classico esempio di rib è costituito dai capitoli 2,1-4,4 del profeta Geremia; proprio questo testo, che contiene molte somiglianze di ordine letterario con il messaggio de La Salette, sarà un costante punto di riferimento per la sua comprensione e la sua divisione contenutistica: l' analisi sarà perciò condotta tenendo i due testi in sinossi.

6. I NUCLEI TEOLOGICO-LINGUISTICI DEL (RIB) DE LA SALETTE

Il rib è un gioco linguistico: ciò vuol dire che l’articolazione delle immagini e dei significati proclamati da Maria a La Salette non è casuale, ma segue delle regole ben precise che ne determinano l' ordine e la successione. Di fatto, la controversia bilaterale biblica segue questo schema: - la chiamata in giudizio; - la dimostrazione della fedeltà all' alleanza da parte di chi cita in giudizio; - la denunzia delle infedeltà al patto commesse dal partner citato in giudizio; - la manifestazione delle conseguenze profonde connesse all' infedeltà; - la volontà di non rompere l' alleanza; - la proposta e l' indicazione della via per ritornare all' alleanza: la confessione del peccato; - l' apertura di un orizzonte di speranza assolutamente gratuito. Il confronto del testo di Geremia con quello del messaggio de La Salette permetterà ora di individuare questi momenti.

a. La chiamata in giudizio. Il profeta Geremia confida: « Mi fu rivolta questa parola del Signore: Va' e grida agli orecchi di Gerusalemme: Così dice il Signore: Mi ricordo di te, dell' affetto della tua giovinezza, dell' amore al tempo del tuo fidanzamento, quando mi seguivi nel deserto, in una terra non seminata. Israele era cosa sacra al Signore, la primizia del suo raccolto: quanti ne mangiavano dovevano pagarla, la sventura si abbatteva su di loro. Oracolo del Signore. Udite la parola del Signore, casa di Giacobbe, voi famiglie tutte della casa di Israele! » (Ger 2,1-4). A La Salette, le prime parole di Maria sono: « Avvicinatevi, figli miei, non abbiate timore, sono qui per annunciarvi un grande messaggio ». Comune ad entrambe le proclamazioni è il loro essere inattese; né Geremia né la Vergine si presentano con il loro messaggio perché c' è stata una esplicita richiesta in materia. La decisione di irrompere nell' orizzonte della storia è tutta di Dio. Diversa è invece l' ambientazione: in Geremia il luogo della proclamazione non è specificato, mentre Maria si pone sulla montagna. Nella Scrittura, il monte è il luogo dell' alleanza: pertanto, rimanda alla fedeltà del Signore al suo patto. Il rib che Maria sta per annunciare sgorga dalla fedeltà misericordiosa di Dio, dal suo stabile desiderio di vivere con gli uomini e le donne di ogni tempo; un desiderio fatto carne in Gesù, grazie alla disponibilità di Maria stessa: « Voi vi siete accostati al monte Sion e alla città del Dio vivente [...] all' adunanza festosa [...] al mediatore della nuova alleanza e al sangue dell' aspersione » (Eb 12,23.24). La montagna è il luogo della verità di Dio. « Ascoltate, o monti, il processo del Signore e porgete l' orecchio, o perenni fondamenta della terra, perché il Signore è in lite con il suo popolo, intenta causa ad Israele. Popolo mio, che cosa ti ho fatto? In che cosa ti ho stancato? Rispondimi» (Mic 6,2-3). Ma proprio per questo, la montagna è anche il luogo della verità dell' uomo: di fronte al Signore la persona non si può più nascondere dietro maschere di convenienza o di paura. La montagna diviene memoria dell' esodo di Israele e di Gesù (Lc 9,28-36), vocazione alla libertà e alla responsabilità: la libertà di essere se stessi e la responsabilità nei confronti dei fratelli e di Colui che ci sta davanti per entrare in comunione con noi.

b. La dimostrazione della fedeltà all' alleanza da parte di chi cita in giudizio. Il profeta Geremia ammonisce: « Così dice il Signore: Quale ingiustizia trovarono in me i vostri padri per allontanarsi da me? Essi seguirono ciò che è vano, diventarono loro stessi vanità e non si domandarono: Dov' è il Signore che ci fece uscire dal paese d' Egitto, ci guidò nel deserto, per una terra di steppe e di frane, per una terra arida e tenebrosa, per una terra che nessuno attraversa e dove nessuno dimora? Io vi ho condotti in una terra da giardino, perché ne mangiaste i frutti e i prodotti. Ma voi, appena entrati, avete contaminato la mia terra e avete reso il mio possesso un abominio. Neppure i sacerdoti si domandarono: Dov' è il Signore? I detentori della legge non mi hanno conosciuto, i pastori mi si sono ribellati, i profeti hanno predetto nel nome di Baal e hanno seguito esseri inutili. [...] Io ti avevo piantato come vigna scelta, tutta di vitigni genuini; ora come mai ti sei mutata in tralci degeneri di vigna bastarda? » (Ger 2,5-8.21) Maria, da parte sua, prosegue dicendo: « Vi ho dato sei giorni per lavorare, mi sono riservato il settimo e non me lo volete concedere. [...] Coloro che guidano i carri non sanno imprecare senza usare il nome di mio Figlio ». Geremia ricorda l' evento fondante che ha dato vita a Israele come popolo: la liberazione dall' Egitto, il dono della legge e l' entrata nella terra promessa. Maria, a partire dal compimento della liberazione dall' Egitto in Cristo, ricorda che la fedeltà di Dio si manifesta nella creazione e nell' incarnazione redentrice. Secondo la testimonianza biblica, i sei giorni di lavoro (ossia l' uomo concreto, che si sviluppa e si evolve nella storia) culminano nel settimo: ciò significa che l' uomo è costitutivamente fatto per entrare in un rapporto di reciproca appartenenza con Dio. L' alleanza vuole appunto indicare questa fondamentale dimensione umana. « Dio crea per fare alleanza, cioè crea allo scopo di far entrare gli uomini in comunione con lui come figli di Dio. L' alleanza, dunque, permea tutta la creazione come suo fine e non è soltanto una modificazione accidentale che si aggiunge ad una creazione in sé consistente e dotata di senso. [...] Non è possibile pensare correttamente l' attività creatrice di Dio al di fuori della sua volontà di alleanza con l' uomo ». Il settimo giorno trova la sua realizzazione in Cristo Gesù (Eb 4,3-16): l' alleanza attuata nell' Uomo di Nazaret e per mezzo di lui è, quindi, la ragione e la finalità per cui Dio ha creato l' uomo. « Questo Gesù è la pietra che, scartata da voi, costruttori, è diventata testata d' angolo. In nessun altro c' è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati » (At 4,11-12). L' incarnazione e il mistero pasquale sono visivamente ricordati dai simboli della luce e del crocifisso. La luce è una costante dell' apparizione, e il Nuovo Testamento la riferisce sempre all' evento Cristo, come si può ravvisare in questi testi: - « Dio è luce e in lui non vi sono tenebre. Se diciamo che siamo in comunione con lui e camminiamo nelle tenebre, mentiamo e non mettiamo in pratica la verità. Ma se camminiamo nella luce, come egli è nella luce, siamo in comunione gli uni con gli altri, e il sangue di Gesù suo Figlio ci purifica da ogni peccato » (1Gv 1,5b-7); - « E Dio che disse: "Rifulga la luce dalle tenebre", rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria divina che rifulge sul volto di Cristo » (2Cor 4,6); - « Di nuovo Gesù parlò loro: "Io sono la luce del mondo"; chi segue me non cammina nelle tenebre, ma avrà la luce della vita » (Gv 8,12). La persona di Cristo è dunque il segno supremo, dato all' umanità, della fedeltà del Signore alla sua promessa: non si può parlare dell' alleanza e della misericordia di Dio senza fare riferimento alla vicenda terrena di Gesù, perché chi vede lui vede il Padre che lo ha mandato e riempito di Spirito Santo. Vicenda che culmina e trova la sua spiegazione nel mistero pasquale: ecco dunque il simbolo del crocifisso. I bambini hanno notato che la croce portata da Maria a La Salette aveva sulle sue braccia una tenaglia e un martello. Ciò significa che, di fronte al Crocifisso, non si può rimanere inerti, come degli spettatori distratti: occorre scegliere, prendere posizione nei suoi confronti. La fedeltà di Dio fatta carne nel messia umiliato ed esaltato si inscrive nel cuore della libertà della persona: un decidersi positivo (la tenaglia) o un decidersi negativo (il martello) ne sono il possibile esito. Ma l' uomo non è abbandonato a sé in questa scelta decisiva e perciò comunque drammatica: se egli non può essere spettatore disincantato nei confronti della rivelazione, anche Dio non è spettatore nei suoi riguardi. La tenaglia è posta sul lato destro del crocifisso, ossia sul lato destro della persona: nella simbologia ebraica, la parte destra dell' uomo indica la sua opzione fondamentale. Nel progetto di Dio, la tenaglia, vale a dire il decidersi positivamente per il Crocifisso, costituisce l' essenza più profonda dell' uomo e la sua vocazione fondamentale: ogni persona e l' intera storia sono chiamate a confrontarsi con lui.

c. La denunzia delle infedeltà commesse dal partner al patto. Geremia incalza ancora i suoi uditori, dicendo: « Per questo intenterò ancora un processo contro di voi - oracolo del Signore - e farò causa ai vostri nipoti. Recatevi nelle isole dei Kittìm e osservate, mandate pure a Kedàr e considerate bene; vedete se là è mai accaduta una cosa simile. Ha mai un popolo cambiato dèi? Eppure quelli non sono dèi! Ma il mio popolo ha cambiato colui che è la sua gloria con un essere inutile e vano. Stupitene, o cieli; inorridite come non mai. Oracolo del Signore. Perché il mio popolo ha commesso due iniquità: essi hanno abbandonato me, sorgente di acqua viva, per scavarsi cisterne screpolate che non tengono l' acqua. [...] Poiché già da tempo hai infranto il tuo giogo, hai spezzato i tuoi legami e hai detto: Non ti servirò! (…) Perché il mio popolo dice: Ci siamo emancipati, più non faremo ritorno a te? Si dimentica forse una vergine dei suoi ornamenti; una sposa della sua cintura? Eppure il mio popolo mi ha dimenticato per giorni innumerevoli » (Ger 2,9-13.20.3 lb-32). A sua volta Maria dice: «Se il mio popolo non vuole sottomettersi... [...] Vi ho dato sei giorni per lavorare, mi sono riservata il settimo e non me lo volete concedere. [...] Coloro che guidano i carri non sanno imprecare senza usare il nome di mio Figlio. [...] A messa, d' estate, vanno solo alcune donne anziane. Gli altri lavorano di domenica, tutta l' estate. D' inverno, quando non sanno che cosa fare, vanno a messa solo per burlarsi della religione. In Quaresima vanno alla macelleria come i cani. (…) La preghiera bisogna proprio farla, sera e mattino ». Geremia e Maria denunziano l' abbandono di Dio e dell' alleanza con toni e parole molto dure: addirittura sconcerta la parola « cane » sulla bocca della Vergine. Nella tradizione di Israele, il « cane » è il pagano che non conosce il Signore. L' effetto dirompente di tale apostrofe è paragonabile a quello che dovette provocare negli uditori un altro grande profeta, Isaia, che ebbe il coraggio di paragonare Gerusalemme, la città santa, a Sodoma (Is 3,6-9). Oppure a quello che provocò lo stesso Geremia, quando nel tempio, il luogo più santo di Gerusalemme, proclamò: « Dice il Signore: Se non mi ascolterete, se non camminerete secondo la legge che ho posto davanti a voi [...] io ridurrò questo tempio come quello di Silo e farò di questa città un esempio di maledizione per tutti i popoli della terra» (Ger 26,4b.6; 7,1-14). Colpisce poi il fatto che, nelle parole di Maria, il « parametro » utilizzato per individuare l' inosservanza dell' alleanza è sempre Cristo Gesù: la non sottomissione, la bestemmia, l' inosservanza della domenica, il rifiuto della sequela liturgicamente attualizzata dalla Quaresima, fanno riferimento alla persona e all' opera del Profeta di Nazaret. Egli è il Figlio obbediente (Lc 20,9-19); la domenica è il suo giorno (Ap 1,9-20); la sequela è la condivisione del suo cammino (Lc 9,18-26.51-62). Dato che Gesù è l' ultimo e il definitivo inviato di Dio, l' accoglienza dell' alleanza passa attraverso la condivisione della sua esistenza (Gv 12,44-45.49-50). L' infedeltà che viene denunziata, allora, non riguarda tanto dei puri e semplici aspetti morali della vita, quanto piuttosto il rovesciamento del rapporto con Dio, che si genera quando viene a mancare l' ascolto della parola di Gesù Giancarlo Bruni nota: « L' esperienza cristiana è fondamentalmente un fatto di sottomissione, a partire dalla grande sub-ordinazione a Dio: "Sottomettetevi dunque a Dio" (Gc 4,7). Un restare soggetti che si concretizza nell' obbedienza alla parola, ove obbedire significa ascoltare la voce ponendosi sotto. Una sottomissione, e in questo sta il paradosso dell' esperienza cristiana, percepita come evento di liberazione e di fruttificazione. Come la terra produce il suo frutto non rifiutandosi all' acqua e al sole, così la creatura che non si pone a lato (= disobbedienza) della parola di Dio viene sottratta alla molteplicità degli idoli e dischiusa ai frutti dello Spirito ». Di fronte a questa vera e propria requisitoria, la reazione può non essere positiva. La tentazione della fuga e della negazione della propria responsabilità è sempre viva. Non si vogliono riconoscere le prove del proprio fallimento. Geremia dice: « Oracolo del Signore. Perché osi dire: Non mi sono contaminata, non ho seguito i Baal? Considera i tuoi passi là nella valle, riconosci quello che hai fatto. [...] Invano ho colpito i vostri figli, voi non avete imparato la lezione. [...] Eppure protesti: Io sono innocente.[...] Eccomi pronto a entrare in giudizio con te, perché hai detto: Non ho peccato. (...) Alza gli occhi sui col-li e osserva: dove non ti sei disonorata? » (Ger 2,22b-23b.30.35a.c; 3,2a) Anche Maria proclama: « Da quanto tempo soffro per voi! Se voglio che mio Figlio non vi abbandoni, mi è stato affidato il compito di pregarlo incessantemente per voi; voi non ci fate caso. [...] Se il raccolto si guasta, la colpa è vostra. Ve l' ho mostrato l' anno scorso con le patate: voi non ci avete fatto caso ». La notazione di questa indifferenza, sia in Geremia che a La Salette, non deve essere considerata alla stregua di uno sfogo, come se fosse solamente un' amara constatazione o un tragico rimpianto. Essa è parte organica del procedimento giuridico che mira ad appurare i fatti mediante ispezione: chi cita in giudizio porta colui che è da lui citato sul luogo stesso del crimine, facendogli vedere le tracce stesse del suo operato. Inoltre, la controversia è una dinamica bilaterale in cui le due parti in lite cercano di prevalere l' una sull' altra mediante un' abilità nel parlare capace di suscitare l' assenso alle proprie ragioni. Ora, nella duplice notazione di Maria: « Voi non ci fate caso [...] non ci avete fatto caso », si può quindi udire la voce del « mio popolo » che pretende di avere le sue ragioni e di fatto nega la sua responsabilità. Anzi, è possibile individuare un momento ulteriore. In Geremia il popolo di Israele passa da una reazione di negazione della propria responsabilità (« Perché osi dire: Non mi sono contaminata, non ho seguito i Baal? », Ger 2,23a) ad una affermazione esplicita del rifiuto di abbandonare la sua condotta («Tu rispondi: No, è inutile, perché io amo gli stranieri e voglio seguirli », Ger 2,25b). Il seguire gli stranieri equivale alla prostituzione, che è una delle immagini per denunciare il tradimento dell' alleanza attraverso le pratiche idolatriche. Il popolo confessa il suo operato, ma non con sentimenti di confusione e desiderio di conversione: è la dichiarazione di chi sente di poter parlare con franchezza, visto che questo non comporterà alcuna conseguenza. A La Salette, il popolo passa dalla negazione della propria responsabilità, espressa dal non fare caso a quanto accade ed è accaduto, alla bestemmia: « Se il raccolto si guasta, la colpa è vostra. Ve l' ho mostrato l' anno scorso con le patate: voi non ci avete fatto caso. Anzi, quando ne trovavate di guaste, bestemmiavate il nome di mio Figlio. [...] A messa, d' estate, vanno solo alcune donne anziane. Gli altri lavorano di domenica, tutta l' estate. D' inverno, quando non sanno che fare, vanno a messa solo per burlarsi della religione. In Quaresima vanno alla macelleria come i cani »

d. La manifestazione delle conseguenze profonde connesse all' infedeltà. Geremia continua il suo annuncio: « Israele è forse uno schiavo o un servo nato in casa? Perché allora è diventato una preda? Contro di lui ruggiscono i leoni, fanno udire i loro urli. La sua terra è ridotta a deserto, le sue città sono state bruciate e nessuno vi abita. [...] Tutto ciò forse non ti accade perché hai abbandonato il Signore tuo Dio? [...] La tua stessa malvagità ti castiga e le tue ribellioni ti puniscono. Riconosci e vedi quanto è cosa cattiva e amara l' avere abbandonato il Signore tuo Dio. [...] Se un uomo ripudia la moglie ed essa, allontanatasi da lui, sposa un altro uomo, tornerà il primo ancora da lei? Forse una simile donna non è tutta contaminata? Tu ti sei disonorata con molti amanti e osi tornare da me? Oracolo del Signore. [...] Così anche la terra hai contaminato con impudicizia e perversità. Per questo sono state fermate le piogge e gli scrosci di primavera non sono venuti. [...] Intanto ti ostini a commettere il male che puoi » (Ger 2,14-15.17.19; 3,1.3b). Maria a La Salette dice: « Se il raccolto si guasta, la colpa è vostra. Ve l' ho mostrato l' anno scorso con le patate: voi non ci avete fatto caso. Anzi, quando ne trovavate di guaste, bestemmiavate il nome di mio Figlio. Esse continueranno a marcire e quest' anno, a Natale, non ve ne saranno più. Se avete del grano, non seminatelo. Quello seminato sarà mangiato dagli insetti e quello che verrà cadrà in polvere quando lo batterete. Sopraggiungerà una grande carestia. Prima di essa i bambini al di sotto dei sette anni saranno colpiti da tremito e morranno tra le braccia di coloro che li terranno. [...] Le noci si guasteranno e l' uva marcirà». Anche queste sono parole forti, dure, che necessitano di una corretta interpretazione. Di fatto, si assiste alla morte della terra, incapace di dare frutti; e alla morte dell' uomo, incapace di mantenere in vita la sua discendenza. Geremia e la Vergine concordano nel riconoscere in questo la responsabilità umana: ciò che accade è in relazione con le scelte di vita operate dai singoli e dalla comunità. Il problema d' interpretazione sta nel definire la qualità e il livello di questa relazione. Una certa tradizione ha inteso questo legame come un rapporto di causa-effetto: il male umano provoca le sciagure, agendo come se fosse una causa fisica. Dio, allora, agirebbe in quanto giudice interessato a ristabilire, mediante una pena materiale da lui personalmente comminata, l' ordine della giustizia violato dal peccato umano. La morte della terra e dell' uomo sono, in tale prospettiva, veri e propri « castighi » di Dio. Questa corrente di pensiero si chiama «retribuzionismo». Scardinare questa visione di Dio è stata la costante preoccupazione di Gesù: « Passando vide un uomo cieco dalla nascita e i suoi discepoli lo interrogarono: "Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco?" Rispose Gesù: "Né lui ha peccato né i suoi genitori"» (Gv 9,1-3a). Questo tipo di relazione è improponibile sia a livello teologico (vista la prassi di Gesù) sia a livello linguistico. Ricordando quanto è stato detto sui giochi linguistici, pensare questa relazione in termini di causa-effetto (al peccato succede materialmente il castigo) significa infatti applicare al gioco linguistico proprio del rib regole interpretative che gli sono estranee. La causalità scientifico-matematica costituisce un gioco linguistico diverso dalla parola profetica e teologica: mischiare o sovrapporre le regole proprie dell' uno all' altro significa condannarsi a non comprendere e a non entrare in comunicazione reciproca. Noi siamo abituati alla mentalità scientifica e matematica che quantifica gli eventi; per la tradizione biblica, che invece non è preoccupata di una comprensione scientifico-matematica della realtà, non esistono una natura o persone o eventi intesi come cose, da sezionare e analizzare. Per la fede di Israele (in cui Gesù vive la sua irripetibile e unica esperienza di Figlio di Dio fatto uomo) ciò che circonda l' uomo, ossia il creato e la storia, è « specchio » di quel che si porta nel cuore, ossia nel proprio io profondo, in quella dimensione personale dove si decide l' orientamento e il significato da dare alla vita. Esistono la natura, le persone e gli eventi come « simboli » incarnati attraverso cui leggere in profondità l' orientamento della vita liberamente deciso dalla persona. Un esempio di questa lettura antropologica e insieme teologica della realtà e della storia ci è fornito dal Salmo 1. L' uomo giusto, che si compiace della legge del Signore, è simbolizzato nell' albero piantato lungo corsi d' acqua, che fa frutto a suo tempo e le cui foglie non appassiscono; l' uomo malvagio è invece simbolizzato nella pula dispersa dal vento. Nel solco della tradizione biblica, la parola profetica è quella che sviluppa maggiormente e con una originalità tutta propria questa percezione « simbolica » dell' uomo e del suo mondo. Si può ben dire che la meditazione e l' annuncio profetico sono una parola simbolica, ed è sul piano simbolico che debbono essere accolte e comprese. Quando si parla di un' ambiente (la natura) e di una storia (l' uomo) che muoiono, il codice linguistico, fatto di immagini varie e diversificate, si fa richiamo alla libertà e alla responsabilità dei singoli e della collettività. Gesù stesso ha sempre ricordato: « Ciò che esce dall' uomo, questo sì contamina l' uomo. Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono le intenzioni cattive » (Mc 7,2 la). Se la Scrittura non riesce a pensare Dio senza l' uomo, è altrettanto vero che, proprio a partire da questa intuizione fondamentale, non riesce a pensare l' uomo senza Dio: l' ambiente « nativo » della libertà umana non sono le cose, ma è Dio. L' autore sacro fa dire a Mosè: « Vedi, io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male. [...] Scegli dunque la vita, perché viva tu e la tua discendenza, amando il Signore tuo Dio, obbedendo alla sua voce e tenendoti unito a lui, poiché è lui la tua vita » (Dt 30,15. 19b-20a). Un creato e una storia che trasudano morte si fanno allora « specchio » di una libertà che non si vuole aprire alla vita. Ecco allora che la parola profetica descrive simbolicamente le conseguenze di questo libero orientamento della persona attraverso immagini naturali (il grano guasto, la carestia, l' uva che marcisce, le noci che ammuffiscono) o immagini di relazioni umane (i bambini che muoiono nelle braccia di chi li sorregge). Queste immagini vengono desunte dall' esperienza vissuta quotidianamente: non sono, quindi, espressione di fenomeni straordinari aperti a pochi fortunati, ma testimonianza pubblica posta sotto gli occhi di tutti. Ciò, però, non basta ancora. La scelta delle immagini simboliche è pubblica, ma non casuale: il quadro d' insieme che ne permette la scelta e le sorregge è costituito dalla relazione di alleanza che sussiste, come dato di fatto, tra Dio e l' uomo. L' alleanza viene declinata, simbolicamente, mediante due categorie tra loro opposte: la benedizione e la maledizione. Nell' ultima sezione del Deuteronomio si può leggere questa parola attribuita a Mosè: « Io ti ho posto davanti la vita e la morte, la benedizione e la maledizione » (Dt 30,19a). La fecondità della terra e la fecondità umana fanno parte della struttura della benedizione biblica; constatare, al contrario, la morte della terra e della discendenza significa essere preda della maledizione. Inoltre, nella struttura dell' alleanza Dio si presenta come padre, come sposo e come sovrano e il popolo come figlio, come sposa e come servo; è possibile ritrovare queste connotazioni anche nel messaggio de La Salette: la terminologia filiale « figli miei - figlio mio » rimanda a Dio come Padre; il donare i sei giorni per lavorare, riservandosi il settimo, richiama a Dio come sovrano; i bambini che muoiono rimandano a Dio come sposo tradito (la morte dei bambini richiamerebbe simbolicamente la morte del bambino concepito nell' adulterio di Davide con Betsabea, 2Sam 12,1-23). Benedizione e maledizione costituiscono, dunque, due giochi linguistici di importanza capitale nella Scrittura; vale perciò la pena di soffermarsi a comprenderne il significato. Per Sofia Cavalletti, la benedizione « esprime il di più che gli eventi e gli elementi del mondo contengono, quel surplus che va oltre il mero dato; scrutando la realtà in profondità, la benedizione vi scorge la presenza dell' amore di Dio, vi scopre la gratuità del dono, la contempla dal punto di vista di come Dio ha concepito le cose: come dono per la gioia dell' uomo, perché possa viverne e goderne ». Sulla stessa linea di pensiero si pone Carmine Di Sante: « La benedizione è la definizione stessa dell' umano - l' uomo come homo benedicens - ma questa consiste non nell' invocare da Dio, sulle cose e sul mondo, la sua grazia, bensì nel riconoscere le cose e il mondo come sua grazia. La benedizione è la definizione stessa dell' umano, perché in essa si dice e si tramanda il mondo come bontà e nelle sue pieghe si trascrive il volto delle cose come grazia. [...] Compito dell' uomo e riconoscere la radicale benedizione che avvolge e sottostà ad ogni frammento del reale, assecondandola e riproducendone la logica nella responsabilità ». Secondo Antonio Bonora, la maledizione significa, al contrario, «prendere le distanze, opporsi, rompere la solidarietà; [...] quando Dio è il soggetto che commina la maledizione, allora è lui che prende le distanze, si oppone a qualcosa di malvagio, sbagliato, orribile. La relazione con lui è interrotta, viene meno la solidarietà perché Dio non può essere coinvolto nel male, reso connivente e corresponsabile e quindi colpevole. [...] Ciò vuoi dire che non bisogna immaginare la maledizione come una cosa, quasi fosse un' infezione, che parte da Dio e si attacca alle creature. Essa non sta affatto dalla parte di Dio, non è un' entità esistente presso Dio. [...] La durezza, la resistenza e l' ostilità che il mondo oppone all' uomo che lo abita non proviene da un malvagio disegno di Dio creatore, ma è imputabile soltanto all' uomo, tanto è vero che Dio "scomunica", prende le distanze da quel tipo di mondo. Dio infatti maledice, disapprova e rifiuta un mondo che sia privato del suo valore simbolico e quindi del rimando a Dio e all' uomo, che sia ridotto quindi a semplice ammasso di cose neutre, esterne alla coscienza o mera materialità insignificante, considerata soltanto come oggetto di consumo. [...] La maledizione, dunque, è connessa con il male, più precisamente con l' agire cattivo libero dell' uomo, al di fuori di ogni determinismo psicologico o sociologico o metastorico». Essa consiste in una alienazione voluta liberamente dall' uomo, non originata da meccanismi oscuri e incontrollabili ». Richiamandosi alla morte della terra e dell' uomo, Maria a La Salette denuncia la situazione di maledizione, cioè di morte interiore del suo popolo: peccando, l' uomo svende il suo essere grazia per sé e il creato conquistatogli da Cristo crocifisso e risorto. Inoltre la situazione denunciata e svelata da Maria a La Salette costituisce, di fatto, un punto di non ritorno per entrambi i contendenti: « Se il mio popolo non vuole sottomettersi, sono costretta a lasciare libero il braccio di mio Figlio. Esso è così forte e così pesante che non posso più sostenerlo ». Questa situazione di non ritorno è quanto angoscia Geremia: « Se un uomo ripudia la moglie ed essa, allontanatasi da lui, sposa un altro uomo, tornerà il primo ancora da lei? » (Ger 3, lab). Secondo quanto prescritto da Dt 24,1-4 ciò è impossibile. Se si applica questa norma al caso dell' alleanza tra il Signore e Israele, bisogna riconoscere che il vincolo giuridico è stato definitivamente infranto, senza alcuna possibilità di ricomporre l' unione tra il popolo e Dio. Ragion per cui Geremia prosegue: « Io, il Signore, ho ripudiato la ribelle Israele proprio per tutti i suoi adulteri, consegnandole il documento del divorzio » (Ger 3,8a). Inaspettatamente, però, Geremia proclama: « Ritorna, Israele ribelle, dice il Signore. Non ti mostrerò la faccia sdegnata, perché io sono pietoso, dice il Signore. [...] Ritornate, figli traviati » (Ger 3, 12b. 14a). Commentando questo passo, Pietro Bovati afferma: « In questo versetto l' invito a ritornare è motivato da una semplice ragione: Dio dice che la sua collera è solo passeggera, perché egli è pietoso. Se quindi la situazione può cambiare, se c' è una speranza di riconciliazione e di ritorno, questo non è dovuto a Israele. Il ritorno che è impossibile all' uomo diventa possibile perché Dio è Dio ». In questo orizzonte si può comprendere ancora meglio il motivo per cui Geremia si è servito, nel suo rib, dell' immagine della rottura del vincolo matrimoniale. Questa supposizione giuridica, di significato simbolico, annuncia senza ombra di equivoco che la donna (Israele) non ha alcun diritto di ritornare dal marito (il Signore): anche un' eventuale conversione non può legittimare la pretesa di essere riaccolta. In altre parole, se la contesa dovesse essere risolta da un giudice, in un tribunale, non si potrebbe avere altra decisione che quella dell' irrevocabile separazione tra i contendenti. Ma la svolta che Dio imprime alla storia è ben diversa. Egli non vuole rompere l' alleanza, ed è a partire da questa ferma intenzione che egli progetta e agisce: « Io, infatti, conosco i progetti che ho fatto a vostro riguardo - dice il Signore - progetti di pace e non di sventura, per concedervi un futuro pieno di speranza» (Ger 29,11). L' orizzonte di senso proprio del rib, ossia della controversia bilaterale, è il perdono: solo il perdono gratuito può aprire una situazione di lite e di contesa ad una nuova realtà di riconciliazione. Molteplici sono i segni di questo divino e gratuito progetto nel messaggio proclamato da Maria a La Salette. Un primo dato è costituito dalla terminologia usata dalla Vergine per qualificare i suoi uditori. Abbiamo visto come in Geremia il Signore, dovendo manifestare la rottura dell' alleanza, qualifichi Israele come figlio traviato (Ger 3,14.22) e come popolo infedele (Ger 2,29). Questi appellativi si trovano in antitesi con le formule dell' alleanza, come, ad esempio, « popolo mio » (Mic 6,3): qui l' unico aggettivo che qualifichi l' essenza e l' identità del « popolo » è « mio », che sta ad indicare l' effettivo legame che unisce Israele al Signore, definendo l' identità di entrambi. Sempre nel passo di Geremia che stiamo considerando, un altro modo linguistico per indicare la rottura dell' alleanza è l' uso del pronome personale « voi » come soggetto logico della frase (Ger 2,4): usato in questa precisa modalità, esso serve a rimarcare, nel contesto della controversia bilaterale, la distanza che separa i due contendenti e li pone l' uno di fronte all' altro (mentre l' alleanza è il momento in cui i contraenti si pongono l' uno accanto e insieme all' altro). Nel messaggio de La Salette ritroviamo questa precisa terminologia. Abbiamo visto sopra come, nel momento dell' ispezione giuridica (dove l' imputato viene messo di fronte alle proprie azioni e alla propria responsabilità per essere venuto meno all' impegno dell' alleanza), venga usato per ben due volte il pronome « voi »: «Se voglio che mio Figlio non vi abbandoni, mi è stato affidato il compito di pregarlo continuamente per voi; e voi non ci fate caso. Se il raccolto si guasta, la colpa è vostra. Ve l' ho mostrato l' anno scorso con le patate: voi non ci avete fatto caso». Eppure, questa non è la terminologia definitiva: infatti queste sono le uniche due ricorrenze del pronome « voi » con un tale e particolare significato. Maria invece qualifica i suoi uditori come «popolo mio» tre volte; e come «figli miei - figlio mio » per ben otto volte. E sempre in senso assoluto, cioè senza altre qualificazioni. Ciò significa, come abbiamo detto, l' operatività dell' alleanza: il legame che unisce il Signore all' umanità non si è spezzato, perché è lui che non ha voluto sancire la rottura del patto. Degna di nota è anche la loro collocazione: entrambi gli appellativi sono posti all' inizio e alla fine del messaggio: « Avvicinatevi, figli miei; non abbiate timore, sono qui per annunciarvi un grande messaggio. Se il mio popolo... [...] Ebbene, figli miei, fatelo conoscere a tutto il mio popolo. Andiamo, figli miei, fatelo conoscere a tutto il mio popolo ». Quest' articolazione del discorso si chiama « inclusione »: essa serve a identificare il tema preciso di un testo scritto o parlato mediante la ripetizione di una o più parole chiave al suo inizio e alla sua fine. Nel nostro caso, sta ad indicare come l' oggetto centrale del messaggio di Maria sia la persistenza dell' alleanza, nonostante il peccato. Questa persistenza nasce e si radica nella scelta di Dio, manifestata e vissuta da Gesù: « Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amati, da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatti rivivere con Cristo: per grazia infatti siete stati salvati. [...] E ciò non viene da voi, ma è dono di Dio » (Ef 2,4.8b). L' alleanza rimane perché Cristo crocifisso e risorto rimane in eterno: lui è l' alleanza fatta persona; lui « è la nostra pace. [...] Per mezzo di lui possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito » (Ef 2, 14a. 18). Cristo, infatti, si nutre della volontà del Padre (Gv 4,34), ossia dell' intenzione di non rompere l' alleanza: « Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue dell' alleanza, versato per molti, in remissione dei peccati» (Mt 26,27b-28). A La Salette Maria sottolinea apertamente questa dimensione cristologica e cristocentrica mettendo in parallelo i termini « figli miei - figlio mio » con il termine « Figlio mio - mio Figlio »: il parallelismo indica che i due termini richiedono di essere uniti per poter comprendere il significato di ciascuno; non si può dare l' uno, isolatamente, senza l' altro. Ritorna, quindi, il medesimo tema di fondo già più volte sottolineato: la vocazione dell' uomo consiste nel confrontarsi in maniera decisiva con il Crocifisso. Ma con una connotazione in più: la compagnia di Maria. Questo confronto si fa in compagnia di Maria perché lei è Madre: Madre del Cristo, Madre della Chiesa, Madre del Figlio e Madre dei figli (Gv 19,25-27; Ap 12). Maria non può essere accolta se non in relazione a Cristo (VMFIS 7.8) e in relazione alla Chiesa (VMFIS 9): questo è, infatti, il dinamismo profondo della sua persona e della sua storia. Inoltre vanno sottolineati anche altri elementi che indicano l' intenzione divina di mantenere l' alleanza. Le prime parole di Maria sono: « Avvicinatevi, figli miei, non abbiate timore, sono qui per annunciarvi un grande messaggio ». Esse costituiscono, come abbiamo già detto, la chiamata in giudizio. Il rib, però, è un processo particolare: non vuole condannare, ma assolvere. Ora questa sua precisa intenzionalità è ravvisabile nell' invito a non temere: l' unico giudizio che non va temuto è, infatti, il verdetto di assoluzione. Ciò significa che, nel momento in cui si inizia il processo, si è già in grado di ravvisare la sua conclusione inaspettata. Va anche detto che, a livello linguistico, l' invito a non temere appartiene al lessico della benedizione, che è la categoria simbolica attraverso cui declinare l' esperienza attuale dell' alleanza. Usarlo qui vuol dire che la controversia bilaterale finirà con il mantenimento del tutto gratuito e inaspettato, del patto. E questo è il dinamismo dell' incarnazione redentrice: « Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio » (2Cor 5,20b). All' invito a non avere timore, tipico della struttura della benedizione, si aggiungono poi la promessa di una rinnovata e ancor più feconda benedizione se il popolo si converte: « Se si convertono, le pietre e le rocce si tramuteranno in mucchi di grano e le patate nasceranno da sole nei campi ». E, in ultimo, il simbolismo eucaristico dell' episodio della terra di Coin dove il padre del veggente dà comunque da mangiare al figlio il pane buono, il pane della vita: « Prendi, figlio mio, mangia ancora del pane quest' anno »

f. La proposta e l' indicazione della via per ritornare all' alleanza: la confessione del peccato. Geremia esorta: « Ritorna, Israele ribelle, dice il Signore. Non ti mostrerò la faccia sdegnata, perché io sono pietoso, dice il Signore. [...] Ritornate, figli traviati, dice il Signore, perché io sono il vostro padrone. [...] Ritornate, figli traviati, io risanerò le vostre ribellioni » (Ger 3,12. 14.22a). Maria a La Salette annuncia: « Gli altri faranno penitenza con la carestia ». La conversione e la penitenza non sgorgano dalla presunta capacità umana di autoredimersi, ma dalla misericordia del perdono divino: convertirsi è possibile solo perché già esiste stabilmente questa volontà di non rompere l' alleanza e la comunione da parte di chi pur è stato tradito. In altre parole, il perdono divino non è conseguenza della conversione dell' uomo, ma semmai è vero il contrario: la conversione e la penitenza sono la conseguenza della benevolenza divina. Il messaggio di Geremia trova il suo compimento definitivo nell' annuncio che inaugura e guida l' intera esistenza di Gesù: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo » (Mc 1,15). La penitenza di cui la Vergine parla non è, allora, il subire l' inevitabile castigo di Dio: il retribuzionismo, che così ragiona (ma in termini errati, come abbiamo già dimostrato), induce al fatalismo e alla passività. La parola profetica, invece, apre lo spazio a possibilità nuove ed inedite (perché inaspettate), in quanto suscita la libertà umana e la chiama a confrontarsi con la libertà divina, per riconoscere in essa il proprio ambito vitale. Fare penitenza non significa porre una serie di gesti che plachino la collera divina. Ma significa riconoscere che non si è in grado di darsi la vita e di assicurarsela: « Se avete del grano, non seminatelo. Quello seminato sarà mangiato dagli insetti e quello che verrà cadrà in polvere, quando lo batterete. Sopraggiungerà una grande carestia. Prima di essa i bambini al di sotto dei sette anni saranno colpiti da tremito e morranno tra le braccia di coloro che li terranno. [...] Le noci si guasteranno e l' uva marcirà ». Il peccato denunciato da Maria è invece il tentativo di trovare in se stessi e nel proprio mondo la salvezza e la vita: « Vi ho dato sei giorni per lavorare, mi sono riservato il settimo e non me lo volete concedere. [...] Gli altri lavorano di domenica, tutta l' estate. D' inverno, quando non sanno che fare, vanno a messa solo per burlarsi della religione. In Quaresima vanno alla macelleria come i cani ». La carestia, in quanto privazione e morte, è il simbolo di una vita in pericolo e rivela il tragico fallimento di questo progetto di autosalvezza: il futuro dell' uomo è chiuso e sbarrato, senza un intervento salvifico di Dio. Vivere l' esperienza della carestia in atteggiamento penitenziale significa allora uscire dalla propria presunta autosufficienza per aprirsi alla presenza e all' azione del Signore. Lui è il futuro dell' uomo; e lo diviene, storicamente, nella misura in cui il suo agire misericordioso viene riconosciuto come dono gratuito e accolto come tale. In questo senso, la carestia, assunta nella prospettiva della fede (che si costruisce riequilibrando il rapporto Dio-uomo-mondo e dando il giusto peso alle persone, alle cose e agli eventi), diviene una forma di digiuno. Questo, nell' Antico Testamento, non è mai un gesto di espiazione ma invocazione, preparazione all' accoglienza del dono di Dio e della sua rivelazione: è il caso di Mosè sul Sinai (Es 34,28) o di Daniele (Dn 10,2-19). Si potrebbe addirittura dire che la carestia-digiuno si fa profezia dell' abbondanza e della festa che derivano dalla rivelazione del Signore. Nel brano che stiamo esaminando insieme al messaggio de La Salette, Geremia presenta la penitenza e la conversione come un ritorno al Signore. Per comprenderne esattamente il significato e la portata, riportiamo le riflessioni di Pietro Bovati: « A prima vista qualcuno potrebbe credere che le cose si siano aggiustate, e si ritorni al punto di partenza. Sarebbe sottovalutare la gravità della rottura (sanzionata con l' atto di ripudio), e sarebbe sottovalutare la novità che il Signore vuole instaurare. C' è stato il divorzio: questo significa che la situazione di infedeltà della moglie era così radicale, che lo sposo non poteva far altro che porre una sanzione altrettanto radicale. Riprendere la donna dopo tutto quello che è capitato sarebbe una cosa abominevole. Ma se interviene il perdono, allora tutto è diverso. Il perdono è l' atto attraverso il quale la donna contaminata diventa pura. Il perdono non è solo dimenticare il passato; è, di più, una creazione nuova, con persone rinnovate dall' atto d' amore perdonante. Quello che Dio crea con il perdono è una nuova alleanza (Ger 31,34), cioè una situazione sponsale nuova, con una donna del tutto trasformata ». Per essere autentico ed efficace, il perdono divino ha dunque bisogno di incontrarsi con il desiderio dell' uomo; un desiderio suscitato nel cuore dallo stesso Spirito, e che si concretizza in una duplice e umile confessione: quella del proprio peccato e quella della misericordia divina. Questa confessione sacrale della propria infedeltà e, pertanto, della superiorità del partner sempre fedele all' alleanza, viene chiamata, in ebraico, todah: essa fa parte di un gioco linguistico particolare, la « struttura d' alleanza », che intesse molteplici rapporti con il rib. Geremia, infatti, dice: « Su, riconosci la tua colpa, perché sei stata infedele al Signore tuo Dio; hai profuso l' amore agli stranieri sotto ogni albero verde e non hai ascoltato la mia voce. Oracolo del Signore » (Ger 3,13). Cesare Giraudo scrive: « Considerato nel suo significato più denso (quello relativo al momento cultuale), l' atteggiamento del partner umano che confessa il Signore non è mai una contemplazione platonica delle idee pure in Dio; al contrario, è sempre una proclamazione esistenziale della superiorità assoluta dell' altro, la quale emerge dal suo confronto, gioioso a un tempo e sofferto, con la nostra umanità necessariamente permeata di infedeltà e di peccato. Anche quando l' Israele presente confessa le proprie colpe e le colpe dei padri, il termine ultimo della confessione rimane quel Signore cui solo compete di ristabilire il partner umano in una relazione d' alleanza perennemente nuova ». Questo dinamismo, dove si intrecciano il libero desiderio di Dio e il libero desiderio dell' uomo, è linguisticamente descritto nel rib come risposta affermativa dell' imputato alle domande dell' accusa. Il porre domande appartiene rigorosamente alla logica della controversia bilaterale: chi domanda, infatti, vuole suscitare l' attenzione di chi lo ascolta, vuole che quest' ultimo presti orecchio alle accuse; e che, rispondendo, dia ragione a chi lo sta rimproverando. Abbiamo sentito il testo di Geremia: « Israele è forse uno schiavo o un servo nato in casa? Perché allora è diventato una preda? [...] E ora perché corri verso l' Egitto a bere le acque del Nilo? Perché corri verso l' Assiria a bere le acque dell’Eufrate? [...] Perché vi lamentate con me? [...] Perché ti sei ridotta così vile nel cambiare la strada?» (Ger 2,14.18.29a.36a). Il rìb ha successo quando le risposte sono simili a queste che Geremia compone e mette sulle labbra di Israele: « Ecco, noi veniamo a te perché tu sei il Signore nostro Dio. In realtà menzogna sono le colline, come anche il clamore sui monti; davvero nel Signore nostro Dio è la salvezza di Israele. [...] Avvolgiamoci nella nostra vergogna, la nostra confusione ci ricopra, perché abbiamo peccato contro il Signore nostro Dio, noi e i nostri padri, dalla nostra giovinezza fino a oggi; non abbiamo ascoltato la voce del Signore nostro Dio » (Ger 3,22b-23.25). A La Salette Maria pone due domande decisive: « Fate la vostra preghiera, figli miei? » e « Avete mai visto del grano guasto, figli miei? ». Sono domande decisive, perché si ricollegano alla denuncia del peccato del popolo precedentemente compiuta. La preghiera fa riferimento all' accoglienza del Cristo e della sua vita di filiale sottomissione a Dio Padre (1Cor 15,20-28), mentre la Vergine aveva accusato il popolo di ben altro comportamento: «Se il mio popolo non vuole sottomettersi... [...] Voi non ci fate caso. [...] Bestemmiavate il nome di mio Figlio». Vedere il grano guasto significa riconoscere umilmente il disordine presente nella coscienza: « Se il raccolto si guasta, la colpa è vostra. Ve l' ho mostrato l' anno scorso con le patate: voi non ci avete fatto caso ». La risposta dei due ragazzi riconosce la verità dell' accusa: «Fate la vostra preghiera figli miei? Non molto, Signora, rispondono entrambi. [...] Avete mai visto del grano guasto, figli miei? Oh sì, Signora, risponde Maximin, ora ricordo. Prima non me lo ricordavo». Commentando questa struttura retorica propria della controversia bilaterale, Pietro Bovati afferma: « L' ascolto di cui parla la profezia è allora il ricordare [di fronte alle parole di Maria, Maximin riconosce: "Oh si, Signora, ora ricordo. Prima non me lo ricordavo" una parola che in precedenza non si è accettata, che non si è capita [Maria nota, ad un certo punto del suo discorso, lo smarrimento e l' incomprensione dei ragazzi e afferma: "Voi non capite, figli miei? Ve lo dirò diversamente"]. Da questo punto di vista, l' accogliere la parola di Dio è entrare nella comprensione di tutta la propria storia, fatta di peccato, di sofferenza, di morte e infine di perdono ». Il rib mediato da Maria ha raggiunto il suo obiettivo: ora la riconciliazione non solo è possibile, ma è già in atto. Ed è proprio la riconciliazione non solo possibile, ma già avviata, che costituisce il grande messaggio da annunciare: « Ebbene, figli miei, fatelo conoscere a tutto il mio popolo. Andiamo, figli miei, fatelo conoscere a tutto il mio popolo ». È difficile pensare ad un cambiamento di prospettiva più radicale di questo, rispetto alla situazione di non ritorno che era stata precedentemente descritta. Tutto è prodotto da Dio, eppure tutto è legato al desiderio degli uomini. La divina e gratuita misericordia della Trinità si manifesta nel fatto che accetta di sottoporsi alla libertà umana: nel Crocifisso risorto si assiste al supremo e definitivo consegnarsi di Dio nella mani umane (Mc 8,31-33; 9,30-32; 10,32-34).

g. L' apertura di un orizzonte di speranza assolutamente gratuito. Geremia continua a parlare nel nome del Signore, dicendo: « Se vuoi ritornare, o Israele, dice il Signore, a me dovrai ritornare. Se rigetterai i tuoi abomini, non dovrai più vagare lontano da me. Il tuo giuramento sarà: Per la vita del Signore, con verità, rettitudine e giustizia. Allora i popoli si diranno benedetti da te e di te si vanteranno» (Ger 4,1-2). E Maria a La Salette annuncia: « Se si convertono, le pietre e le rocce si tramuteranno in mucchi di grano e le patate nasceranno da sole nei campi ». Sia il profeta che la Vergine descrivono simbolicamente la riconciliazione e la speranza della nuova creazione che sgorga dal perdono divino, scegliendo immagini che sono strutturalmente in antitesi con quelle usate per significare l' abbandono dell' alleanza. Così, Geremia parla: - del ritorno presso il Signore: esso sta in antitesi con l' allontanamento dal Signore (« Essi hanno abbandonato me, sorgente di acqua viva. [...] Perché il mio popolo dice: Ci siamo emancipati, più non faremo ritorno a me essi voltano le spalle e non la fronte. [...] Ho ripudiato la ribelle Israele proprio per tutti i suoi adulteri, consegnandole il documento del divorzio »: Ger 2, 13b. 31b.37b; 3,8); - del giuramento sulla vita del Signore, che si oppone alle negazioni del legame con Dio (« Ha mai un popolo cambiato dèi? Eppure quelli non sono dèi! Ma il mio popolo ha cambiato colui che è la sua gloria con un essere inutile e vano. [...] Poiché già da tempo hai infranto il tuo giogo, hai spezzato i tuoi legami e hai detto: Non ti servirò. [...] Neppure i sacerdoti si domandarono: Dov' è il Signore? I detentori della legge non mi hanno conosciuto, i pastori mi si sono ribellati, i profeti hanno predetto nel nome di Baal e hanno seguito esseri inutili. [...] Dicono a un pezzo di legno: Tu sei mio padre, e a una pietra: Tu mi hai generato. [...] E ora forse non gridi verso di me: Padre mio, amico della mia giovinezza tu sei! Serberà egli rancore per sempre? Conserverà in eterno la sua ira? Così parli, ma intanto ti ostini a commettere il male che puoi »: Ger 11.20a.8.37a; 3,4-5); - della verità, rettitudine e giustizia come nuovo atteggiamento di vita personale e sociale, impregnato dell' alleanza, in antitesi con la falsità, l' empietà e l' ingiustizia («Come sai ben scegliere la tua via in cerca di amore! Per questo hai insegnato i tuoi costumi anche alle donne peggiori. Perfino sugli orli delle tue vesti si trova il sangue di poveri innocenti, da te non sorpresi nell' atto di scassinare, ma presso ogni quercia. Eppure protesti: Io sono innocente»: Ger 2,33-35a); - della rinnovata benedizione, opposta alla maledizione del tradimento (« Io vi ho condotti in una terra da giardino, perché ne mangiaste i frutti e i prodotti. Ma voi, appena entrati, avete contaminato la mia terra e avete reso il mio possesso un abominio. [...] Israele è forse uno schiavo o un servo nato in casa? Perché allora è diventato una preda? Contro di lui ruggiscono i leoni, fanno udire i loro urli. La sua terra è ridotta a deserto, le sue città sono state bruciate e nessuno vi abita. [...] La vostra stessa spada ha divorato i vostri profeti come un leone distruttore »: Ger 2,7.14-15.30b). Maria, a sua volta, parla: - delle rocce che si trasformano in mucchi di grano, in antitesi al grano guasto (« Se il raccolto si guasta, la colpa è vostra. [...] Se avete del grano, non seminatelo. Quello seminato sarà mangiato dagli insetti e quello che verrà cadrà in polvere, quando lo batterete »); - delle patate che nascono da sole nei campi, opposte alla loro mancanza (« Ve l' ho mostrato l' anno scorso con le patate: voi non ci avete fatto caso. Anzi, quando ne trovavate di guaste, bestemmiavate il nome di mio Figlio. Esse continueranno a marcire e quest' anno, a Natale, non ve ne saranno più »); - del bambino che mangia il pane buono datogli dal padre e che pertanto può vivere, in antitesi con la morte dei bambini («Sopraggiungerà una grande carestia. Prima di essa i bambini al di sotto dei sette anni saranno colpiti da tremito e morranno tra le braccia di coloro che li terranno»). In questo orizzonte di speranza va anche situato il grande segno delle lacrime. Maria, a La Salette, ha pianto lacrime di luce per tutto il tempo che è rimasta insieme con Maximin e Mélanie. Il codice comunicativo proprio del pianto è una componente non trascurabile nel ministero profetico di Geremia, rilevabile nei suoi stessi testi: - « Chi farà del mio capo una fonte d' acqua, dei miei occhi una sorgente di lacrime, perché pianga giorno e notte gli uccisi della figlia del mio popolo? » (Ger 8,23); - « Se voi non ascolterete, io piangerò in segreto dinanzi alla vostra superbia; il mio occhio si scioglierà in lacrime, perché sarà deportato il gregge del Signore » (Ger 13,17). Commentando questi passi, Pietro Bovati nota: « Quando il male si rivela così profondamente, quando l' insipienza dell' uomo raggiunge il suo culmine, la parola del profeta si muta in pianto. Queste lacrime sono in primo luogo segno di compassione per il popolo che il profeta ama perché è il "suo" popolo. Come il pianto di Gesù su Gerusalemme (Lc 19,41), il pianto di Geremia non è solo lo sfogo per un' amara delusione, ma è piuttosto un' ultima muta parola che invita il peccatore a convertirsi, e che intercede presso Dio ». La massima significazione delle lacrime viene dunque raggiunta in Gesù, che « nei giorni della sua vita terrena offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà» (Eb 5,7). Il pianto di Gesù lega l' uomo sofferente a Dio, e così facendo vince «colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo», e libera « quelli che per timore della morte erano tenuti in schiavitù per tutta la vita » (Eb 2, 14b- 15). La sofferenza, la morte sono il grande scandalo che allontana le persone da Dio, e velano in modo quasi impenetrabile la sua paternità: allontanamento e bestemmia sembrano le uniche risposte possibili, ed è proprio quanto Maria rileva a La Salette: « Se il mio popolo non vuole sottomettersi... [...] Coloro che guidano i carri non sanno imprecare senza usare il nome di mio Figlio. [...] Bestemmiavate il nome di mio Figlio ». Invece, il pianto che sgorga dall' interno di queste situazioni è un' affermazione di fede: significa confessare che quest' orizzonte di morte non vede Dio lontano, ma vicino, impegnato a condividerlo, a farlo proprio per redimerlo. Le lacrime sono segno di incarnazione; Dio non salva da lontano, ma facendosi lui stesso carne da salvare: « Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore, perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio » (2Cor 5,21). Enzo Bianchi, priore della comunità monastica di Bose, commenta: « Nella debolezza e nella sconfitta estrema cui Dio espone la sua onnipotenza nel Cristo crocifisso, proprio lì va riconosciuto il gesto estremo della potenza di Dio nel suo agire di svuotamento e di condiscendenza verso gli uomini. Nella morte di croce in cui Dio non ha risparmiato il proprio Figlio ma lo ha consegnato per tutti noi (Rm 8,32) e in cui il Figlio di Dio ha consegnato se stesso (Gal 2,20) per noi, la potenza di Dio si manifesta come unico, libero gesto dell' amore di Dio e di Cristo (cfr. Rm 8,7.39; Gal 2,20) fino all' estremo per noi uomini ». Le lacrime, dunque, attestano non la condanna di Dio ma la sua volontà di salvare, perché implicano il suo coinvolgersi, il suo entrare nella negatività umana per spezzarla ed aprire le persone e la storia a nuovi e ben diversi orizzonti. Il pianto diviene segno della comunione che Dio vuole continuare ad avere e costruire con l' uomo: esse spezzano il circolo vizioso e peccaminoso dell' autosufficienza e dell' incomunicabilità tra i partner dell' alleanza, e aprono la realtà umana all' invocazione e all' incontro. E’ quanto detto da Geremia: « Oracolo del Signore. Sui colli si ode una voce: pianto e gemiti degli Israeliti. [...] Ecco noi veniamo a te perché tu sei il Signore nostro Dio » (Ger 3,20b-21a.22b). Maria, alla sequela di Gesù, condivide l' affanno mortale del suo popolo e piange: il suo pianto ha aperto e apre il vissuto degli uomini e delle donne di Corps (e di sempre) all' incontro di Dio nel Crocifisso. Sono lacrime di luce, perché la realtà su cui vengono versate diviene nuovamente capace di accogliere il Signore. Sono lacrime feconde, perché spingono a riconsiderare se stessi non come schiavi, ma come figli di Dio, disegnando così il sentiero della conversione del cuore. Vorremmo riportare, a conclusione di questa sezione, le riflessioni di Rosario Pio Merendino: « La storia umana, e la storia di Dio con l' uomo, procede e si evolve attraverso successivi "ritorni" : ritorno alla propria terra, ritorno alla libertà, ritorno all' intesa e all' accordo, ritorno alla pienezza dei propri diritti e delle proprie potenzialità, ritorno alla salute, ritorno alla pace. Ognuno di questi ritorni può essere vissuto e interpretato dal credente come il ritorno di Dio, come dono del suo amore e segno della sua presenza operante. Per il non credente ognuno di questi ritorni può rappresentare un momento maturativo, in cui insieme alla coscienza della propria finitezza e dipendenza si rafforza il senso di responsabilità e la coscienza di quanto sia necessario collaborare con tutte le forze alla costruzione di una convivenza pacifica tra i popoli e i gruppi umani, fondata sul rispetto reciproco e la giustizia. Anche in questi momenti laici di ritorno Dio è, pur non visto e cercato, presente e operante a costruire il suo regno che della pace e della giustizia tra gli uomini non può fare a meno ». L' evento de La Salette è stato avvicinato prendendo a criterio della sua interpretazione la sacra Scrittura. Si tratta ora di passare a quanto la Chiesa ha recepito dell' apparizione, con l' istituzione della memoria liturgica propria della beata Vergine Maria a La Salette. E il tema del prossimo capitolo

3. La Salette nella liturgia della Chiesa

La rilettura dell' evento de La Salette alla luce del rib biblico ha evidenziato la centralità della parola di Dio compiutasi in Cristo come criterio di riferimento e di interpretazione anche dei fenomeni straordinari quali le apparizioni. Il luogo dove questa parola risuona e si attualizza pienamente è la liturgia. Essa non è un puro «luogo teologico», ossia un insieme da cui estrarre prove in favore di un determinato pensiero teologico. La liturgia è vera teologia, ossia comprensione e annuncio della fede. Questa è stata l' intuizione fondamentale dei primi padri della Chiesa. Essi parlano dei sacramenti e del culto a partire dai sacramenti stessi e al loro interno. Le grandi catechesi mistagogiche trovano il loro interesse primario nel condurre e nell' introdurre il neobattezzato a una comprensione orante. Scrive, a questo proposito, Cesare Giraudo: « Se è vero che la norma del pregare stabilisce, ossia determina, e a sua volta esplicita la norma del credere; se è vero che quando celebriamo l' eucaristia non facciamo vaniloquio, ma facciamo teologia; se è vero che come celebriamo l' eucaristia così dobbiamo credere, allora non avremo che da lasciarci docilmente e fiduciosamente condurre dalla voce della Chiesa che colloquia con il suo partner divino nel momento della massima tensione relazionale di cui l' una e l' altro sono capaci». Infatti l' operare liturgico della Chiesa è continuazione e allo stesso tempo partecipazione al culto che Cristo, quale Figlio di Dio e capostipite dei genere umano, ha offerto e offre al Padre: « Nella sua liturgia, Cristo esprime per noi, in modo sacramentale, il suo essere Figlio-del-Padre. La sua liturgia non solo rappresenta la sua figliolanza, ma comunica anche la grazia del rapporto filiale con Dio. Poiché la Chiesa partecipa in Cristo alla sua liturgia, essa diventa anche partecipe della figliolanza di Gesù, assume il suo atteggiamento e assimila i suoi sentimenti. Così la liturgia della Chiesa è manifestazione e attivazione della figliolanza di Dio che lo Spirito Santo opera in essa. Poiché la fede è una delle manifestazioni vitali, centrali della grazia, nella liturgia essa diventa visibile e raggiunge il suo massimo sviluppo. In altre parole, la fede trova nella liturgia l' espressione suprema e vi è sentita in modo più intenso ». Se la liturgia è dunque comunicazione celebrata del mistero di Cristo che, attraverso la sua morte e risurrezione, ci ha resi figli di Dio, è in questa linea che si comprende la presenza di Maria nella liturgia eucaristica e nelle memorie particolari che si susseguono nell' anno liturgico. Il Concilio Vaticano II, nella costituzione sulla liturgia, enuncia le ragioni di questa presenza: « Nella celebrazione di questo ciclo annuale dei misteri di Cristo la santa Chiesa venera con speciale amore Maria santissima Madre di Dio, congiunta indissolubilmente con l' opera salvifica del Figlio suo; in Maria ammira ed esalta il frutto più eccelso della redenzione e contempla con gioia, come in un' immagine purissima, ciò che essa, tutta, desidera e spera di essere» (SC 103). Il culto liturgico a Maria trova quindi la sua giustificazione in un «motivo cristologico », perché Maria è « venerata » in rapporto ai « misteri di Cristo »; in un « motivo soteriologico », perché Maria è « congiunta indissolubilmente con l' opera salvifica del Figlio suo»; infine, in un « motivo di esemplarità », perché la Chiesa ammira in lei ciò che « desidera e spera di essere ». Queste premesse chiariscono lo sfondo su cui costruire il presente capitolo. Ci metteremo in ascolto de La Salette «pregata », così come la Chiesa l' ha sperimentata approvandone la liturgia, per poi introdurci lentamente nella comprensione di fede dell' apparizione, la quale rimane un evento che va al di là della portata degli uomini. Verrà analizzata la « Messa in onore della B.V.M. de La Salette », il cui formulano italiano è stato approvato e promulgato dalla Sacra Congregazione per i Sacramenti e il Culto divino il 2 settembre 1978 (il formulano latino era stato approvato il 25 giugno 1976). Cercheremo in primo luogo di evidenziarne i contenuti scritturistici ed eucologici. Poi verranno rilette le coordinate simboliche dell' evento dell' apparizione alla luce dei dati emersi dalla liturgia stessa

1. LA SALVEZZA, UN MISTERO DI ALLEANZA

La « Messa in onore della B.V.M. de La Salette » si apre con un' antifona d' ingresso che farà da sfondo a tutta la liturgia: « Paziente e misericordioso è il Signore, lento all' ira e ricco di grazia. Buono è il Signore verso tutti, la sua tenerezza si espande su tutte le creature ». La funzione dell' antifona d' ingresso è quella di introdurre l' assemblea nel significato particolare di ciò che si sta per compiere. Ciò vuol dire che la comunità cristiana, attraverso questa particolare memoria liturgica, è invitata a riunirsi per celebrare la «misericordia » di Dio, misericordia che si caratterizza appunto attraverso una « lentezza all' ira » e una « ricchezza di grazia » del «Dio buono» che in Gesù Cristo, sacramento della tenerezza del Padre, e nello Spirito, riversa il suo amore « su tutte le creature ». Questa continua presenza di Dio nella storia dell' umanità, caratterizzata da rapporti di elezione, di aiuto e di amore che egli prima strinse con « Israele » e poi, in Gesù Cristo, con tutti gli uomini, viene sintetizzata dalla sacra Scrittura attraverso il termine « alleanza ». Ed è proprio l' alleanza il nodo tematico attorno al quale si condensano i significati più profondi di questa nostra memoria liturgica. Infatti la stessa acclamazione al vangelo, che è sintesi delle prime due letture e introduzione alla comprensione del vangelo stesso, riportando il v. 17 della prima lettura (Gn 9,8-17), così canta: « Questo è il segno dell' alleanza che io ho stabilito tra me e ogni carne che è sulla terra ». Prima di analizzare il testo in questione, che si riferisce all' alleanza stabilita dal Signore con Noè, è bene forse soffermarci a comprendere in quali termini nella Bibbia si parli di « alleanza »

2. L' ALLEANZA NELLA SACRA SCRITTURA

Il termine « alleanza » trova le sue radici in un contesto giuridico. Infatti esso può indicare un patto, un contratto, oppure una convenzione tra due persone o gruppi sociali, in relazione al bene comune oppure in ordine alla salvaguardia di interessi particolari. Il corrispondente sostantivo ebraico berit è attestato nell' Antico Testamento per ben 287 volte e probabilmente deriva dall' accadico biritù, che significa « vincolo ». Le opinioni riguardo a questo termine sono molteplici, ma possono essere ricondotte a un quadro di riferimento, in particolar modo per ciò che concerne l' uso del termine in ambito profano. L' esegeta Ernst Kutsch così sintetizza: « Beritù non indica un "rapporto", ma è la "disposizione", 1' "obbligo" che il soggetto della berit si assume; in questo contesto berit può significare anche la "promessa [...] Il soggetto della berit impone un obbligo alla controparte, cioè a colui con il quale "taglia" una berit.[...] Dall' impegno assunto su di sé si può passare alla berit reciproca, all' assunzione di obblighi reciproci da parte di due o più contraenti. [...] Infine un terzo può stabilire una berit fra due "parti". Nell' Antico Testamento non abbiamo un esempio specifico dal quale si possa dedurre che una berit di questo genere comporti obblighi per le due parti ». L' Antico Testamento attesta numerosi esempi di questa berit profana. Per ciò che concerne il bene comune o l' uso dei beni comuni, si possono ricordare: l' alleanza di Abramo in Canaan con la gente del luogo per la comune difesa (Gn 14,13) o per la questione del pozzo usurpato dai servi di Abimelek (Gn 21,25-27). Abbiamo poi una serie di alleanze a scopo politico: Davide, eletto re di Ebron, fa un' alleanza con i capi della fazione nordista (2Sam 3); Labano fa un' alleanza con Giacobbe (Gn 31,44-46); Giosuè con i Gabaoniti (Gs 9,1.15 ss); Chiram con Salomone (1Re 5,26). Ci sono infine alleanze che superano il puro concetto giuridico-politico, per significare vincoli affettivi e spirituali, come ad esempio: « Gionata strinse con Davide un patto, perché lo amava come l' anima sua » (1Sam 18,3); oppure la bellissima immagine del matrimonio offertaci dal profeta Malachia: « Perché il Signore è testimone fra te e la donna della tua giovinezza, che ora perfidamente tradisci, mentre essa è la tua consorte, la donna legata a te da un patto» (Ml 2, 14) In modo specifico, però, nell' Antico Testamento il termine berit assume una valenza di tipo religioso: esso serve a indicare il particolare rapporto che esiste tra Dio e il suo popolo. In questo caso però il soggetto della berit è unicamente il Signore. Egli è colui che la stabilisce e con essa sancisce il suo impegno a fare o a dare qualcosa all' uomo. Molteplici sono i casi in cui la Bibbia usa questa accezione del termine berit. Oltre a Gn 9,8-17, che sarà oggetto di una trattazione più ampia nel prossimo paragrafo, si fa menzione della berit più volte, ad esempio in riferimento ad Abramo. La storia del patriarca biblico ruota, di fatto, sull' intenzione divina di stabilire l' alleanza: egli può divenire benedizione per tutti i popoli, realizzando così la sua vocazione (Gn 12,1-4), solo vivendo questo legame con il Signore. La tradizione jahvista ne riporta il racconto: «Quando, tramontato il sole, si era fatto buio fitto, ecco un forno fumante... In quel giorno il Signore concluse questa alleanza con Abram: "Alla tua discendenza io darò..." » (Gn 15,17-18). In questo caso Dio, simboleggiato dal fuoco, passa tra gli animali divisi in due, segno del suo impegno solenne sigillato da un giuramento imprecatorio. La tradizione sacerdotale vede, a sua volta, Abramo come il destinatario della berit del Signore, che gli annuncia: « Porrò la mia alleanza tra me e te e ti renderò numeroso... Ecco la mia alleanza è con te e sarai padre... » (Gn 17,1-11). Appare chiaramente che l' iniziativa di Dio è la sua alleanza, Abramo è solo il destinatario del suo amore gratuito. La sostanza del patto di Abramo si ritrova nell' Esodo, dove i racconti che riguardano gli eventi localizzati sul monte Sinai sono certamente la più antica testimonianza del concetto di alleanza. Non solo, ma essi dimostrano con evidenza il legame profondo di Dio con il suo popolo. Egli l' ha plasmato come sua « proprietà », l' ha reso popolo sacerdotale (Es 19,4-8) e ha sancito tale alleanza in modo solenne: « Il Signore disse a Mosè: "Scrivi queste parole, perché sulla base di queste parole io ho stabilito un' alleanza con te e con Israele" » (Es 34,27). Nello sviluppo promosso dalla teologia deuteronomica si evidenzierà sempre più anche la necessità della risposta da parte dello stesso Israele: « Vedi, io pongo davanti a te la vita e il bene, la morte e il male; poiché io ti comando oggi di amare il Signore, il tuo Dio, di camminare nelle sue vie, di osservare i suoi comandamenti... Ma se il tuo cuore si volge indietro, e se tu non ubbidisci... io vi dichiaro che certamente perirete » (Dt 30,15-20). A Israele viene quindi richiesta una risposta di «obbedienza» al patto. E Israele risponderà con periodi di grande fervore religioso, che però col tempo si affievolirà fino a divenire infedeltà, abbandono nelle mani di divinità straniere. Allora la stessa caduta di Samaria e di Gerusalemme saranno lette dal profeta Geremia come conseguenze dell' infedeltà al patto: « Molte persone passeranno su questa città e ognuno dirà al compagno: Perché mai l' Altissimo ha agito così con questa grande città? E si risponderà: Perché essi hanno abbandonato l' alleanza del Signore loro Dio, hanno adorato altri dèi e li hanno serviti» (Ger 22,8-9). Nonostante gli innumerevoli richiami dei profeti (Am 5,21-24; Ml 2,7-8; ecc.), il popolo di Dio persiste nella sua infedeltà. Allora si prefigura una « nuova alleanza » (Ez 16,58-60; Ger 31,31-34), dove la mediazione sarà affidata alla vocazione del Servo del Signore (Is 42,6; 49,6ss) che, attraverso la sua sofferenza, permetterà di raggiungere la pienezza del disegno di Dio. Ora, nel Nuovo Testamento la realizzazione delle promesse fatte dai profeti avverrà attraverso Gesù Cristo: « Egli è mediatore di una nuova alleanza » (Eb 9,15). Attraverso la sua immolazione sulla croce, Gesù non solo è garante e mediatore della nuova alleanza, ma con il suo sacrificio estingue anche le colpe connesse con l' antico patto

3. L' ALLEANZA COSMICA: GN 9,8-17

La breve sintesi sul concetto biblico di « alleanza » ci ha illuminati sul particolare rapporto intessuto da Dio con il suo popolo. Ora, con Gn 9,8-17, si apre un capitolo interessantissimo, non solo riguardo al tema dell' alleanza, ma a tutta la teologia dell' Antico Testamento. Esso costituisce la prima lettura della liturgia che celebra Maria a La Salette. Ne riportiamo il testo: « Disse Dio a Noè e ai suoi figli con lui: "Quanto a me, ecco io stabilisco la mia alleanza con voi e con i vostri discendenti dopo di voi; con ogni essere vivente che è con voi, uccelli, bestiame e bestie selvatiche, con tutti gli animali che sono usciti dall' arca. Io stabilisco la mia alleanza con voi: non sarà più distrutto nessun vivente dalle acque del diluvio, ne piu il diluvio devasterà la terra". Dio disse: "Questo è il segno dell' alleanza, che io pongo tra me e voi e tra ogni essere vivente che è con voi per le generazioni eterne. Il mio arco pongo sulle nubi ed esso sarà il segno dell' alleanza tra me e la terra. Quando radunerò le nubi sulla terra e apparirà l' arco sulle nubi, ricorderò la mia alleanza che è tra me e voi e tra ogni essere che vive in ogni carne e non ci saranno più le acque per il diluvio, per distruggere ogni carne. L' arco sarà sulle nubi e io lo guarderò per ricordare l' alleanza eterna tra Dio e ogni essere che vive in ogni carne che è sulla terra". Disse Dio a Noè: "Questo è il segno dell' alleanza che io ho stabilito tra me e ogni carne che è sulla terra"». Questo brano della Genesi va letto in relazione al racconto del diluvio, ed è frutto di un minuzioso lavoro redazionale che, pregevolmente, ha cucito insieme due fonti: la jahvista (J) e la sacerdotale (P).

a. Il racconto jahvista. « Dio vide che la malvagità dell' uomo era grande sulla terra e che tutti i pensieri e i disegni del suo cuore erano costantemente rivolti al male. Allora il Signore si pentì di aver fatto l' uomo sulla terra e se ne dolse in cuor suo...» (Gn 6,5-8). Questi versetti del prologo al diluvio rappresentano una peculiarità all' interno della preistoria jahvistica. Infatti finora lo jahvista, nella storia del paradiso e della caduta, nella storia di Caino, nella genealogia dei Cainiti e nella storia del matrimonio degli angeli, si era servito di materiali provenienti da antichissime tradizioni, rielaborandoli poi sapientemente. Con i vv. 5-8, invece, l' autore si lascia andare ad una riflessione personale: quel peccato che aveva fatto irruzione nel mondo ai primordi della storia è ora dilagato fino a corrodere il « cuore dell' uomo » che ormai è « costantemente rivolto solo al male ». Per contro, c' è il « cuore di Dio » che mentre da una parte, turbato, deluso e preso dall' ira decreta la fine di tutto ciò che ha creato, dall' altra lascia emergere la sua volontà di misericordia attraverso la scelta di Noè, per mezzo del quale egli riannoda la sua opera salvifica. E allora, dal « cuore » preoccupato di Dio, il nostro autore, con grande senso artistico, ci introduce al mistero del « cuore » misericordioso del Signore: « Quando Dio odorò la piacevole fragranza, disse tra sé: "Mai più maledirò il terreno per causa dell' uomo, perché tutti i pensieri del cuore dell' uomo sono malvagi fin dalla sua giovinezza... Finché durerà la terra, semenza e messi, freddo e caldo, estate e inverno, notte e giorno, non cesseranno" ». (Gn 8,21-22). E singolare che la stessa « malvagità del cuore dell' uomo », che nel prologo ha motivato la punizione di Dio, nell' epilogo ne manifesti la misericordia e la grazia. Commenta, a questo proposito, Gerard von Rad: « Questo contrasto tra l' ira punitrice di Dio e la sua grazia soccorritrice, che peraltro pervade tutta la Bibbia, viene qui presentato in maniera del tutto aliena dalla teologia, anzi quasi senza misura, cioè quasi come un cedere, come un adattarsi di Dio alla peccaminosità dell' uomo. [...] La sentenza stessa è espressa in una solenne lingua poetica; i cicli, che essa garantisce, corrispondono, dal punto di vista climatico, al mondo del nostro autore; sono nominate le due principali stagioni dell' anno, che determinano la vita in Palestina: l' estate totalmente arida e il tempo delle piogge invernali. La primavera e l' autunno, a motivo dei rapidi cambiamenti, non hanno, al confronto, la stessa importanza ». La storia jahvistica del diluvio si chiude, quindi, con una parola di grazia: nonostante la peccaminosità dell' uomo, Dio garantisce i cicli vitali della natura

b. Il racconto sacerdotale. Il secondo racconto del diluvio, formatosi nella scuola sacerdotale (P), a differenza del primo (J), si ricollega direttamente alla genealogia dei Setiti (Gn 5); il tempo che va da Adamo a Noè viene quindi semplicemente colmato con una genealogia. Noè viene subito presentato come saddiq, giusto, e tamim, senza difetto, concetti che ritroviamo spesso nella Bibbia, mentre è unica l' affermazione «camminare con Dio». Con Gn 6,11 inizia la storia sacerdotale del diluvio: « Ora la terra era pervertita davanti a Elohim e si era riempita di violenza. Elohim guardò la terra, ed ecco essa si era pervertita, perché ogni carne aveva depravato la sua condotta sulla terra. Elohim allora disse a Noè: "Per me è giunta la fine di ogni carne, perché la terra è piena di violenza per loro colpa, e io li voglio sterminare insieme con la terra" » (Gn 6,11-13). Il v. 11 rivela subito il cambiamento di prospettiva dell' autore sacerdotale rispetto a quello jahvista. Infatti, mentre lo jahvista aveva fatto una descrizione particolareggiata del dilagare del peccato sulla terra con una serie di immagini, l' autore sacerdotale usa sinteticamente il vocabolo hamas, delitto, quindi oppressione volontaria. Quest' arbitrio dell' uomo comporta di fatto una sconsacrazione della terra. Molto più estesa e particolareggiata è invece la descrizione dell' arca (Gn 6,14-16) e quella dello stesso diluvio (Gn 7,18-20) con le quali si evidenzia la concretezza dell' agire di Dio. Un elemento suggestivo in questo racconto è rappresentato dallo stesso termine mabbul che non significa propriamente «diluvio», « inondazione», ma è un termine tecnico che indica l' oceano celeste, posto sopra il firmamento, che defluisce verso il basso attraverso apposite saracinesche (2Re 7,2.19). Il diluvio, quindi, nella descrizione sacerdotale, è da considerarsi come una catastrofe che si estende a tutto il cosmo. Il mare primordiale che precipita sulla terra rappresenta il crollo dell' intero edificio del mondo. Le due parti di quel mare caotico primordiale, diviso in due dalla forza creatrice dell' amore di Dio, tornano ad unirsi: è il caos! Ma nonostante tutto « Dio si ricordò di Noè ». Nella sua giustizia che giudica il peccato, Dio non perde la sua misericordia: « La storia del diluvio, oggi meno considerata dal pensiero teologico che non gli altri fatti della preistoria, documenta anzitutto, in modo evidente, la potenza e la libertà di Dio di lasciare che il mondo, da lui creato, precipiti di nuovo nel caos. Essa ci mostra Dio che giudica il peccato, e sta all' inizio della Bibbia come espressione efficace dell' ira micidiale di Dio per il peccato. [...] Ognuna delle rivelazioni salvifiche progressive scaturisce dal cuore di Dio; di lui si manifesta l' ira radicale sul peccato, e non si attarda a parlare del capriccio di un idolo col quale l' uomo debba fare i conti. Come miracolo appare già l' elezione di Noè, e quindi la preservazione dell' eone noachitico da parte della pazienza divina ». Il tema della misericordia di Dio e della sua volontà salvifica viene sviluppato dall' autore sacerdotale in particolar modo in 9,1-17. Egli non sta parlando di cose lontane, ma risponde concretamente a problemi che risulteranno di notevole importanza per la successiva fede d' Israele. Infatti, se è vero che la creazione, uscita perfetta dalle mani di Dio, è soggetta a un grave disordine a causa della « violenza » dell' uomo, se tra gli stessi uomini la pace è scomparsa a causa della degenerazione della convivenza umana, quale sarà il rapporto attuale di Dio con la creazione e degli uomini tra loro e con la creazione stessa? Ecco allora che nei vv. 1-17 vengono affrontate specificamente alcune questioni teologiche, rispondendo ad alcuni interrogativi fondamentali. La prima questione riguarda il comandamento del « siate fecondi » (Gn 1,28). In una creazione decaduta a causa del peccato, l' uomo in questa sua funzione vitale è ancora sotto la benedizione di Dio? Il v. 1 risponde affermativamente. L' uomo, anche dopo il grande giudizio di Dio, si vede confermare la benedizione di Dio in rapporto alla sua generazione. La seconda questione riguarda invece l' ordine che deve regnare nel creato. Il regno animale è pieno di terrore di fronte all' uomo, non c' è più pace paradisiaca. In tale contesto viene rinnovato il comando di dominio sugli animali, con la peculiarità però di non toccare sangue (Gn 9,2-4). Il sangue, infatti, è proprietà particolare di Dio, poiché in esso risiede la vita. Nei vv. 5-7, il discorso si amplia e viene proclamato il diritto di sovranità di Dio sulla vita umana; essa è inviolabile, non in forza di un diritto umano, o di una pura e semplice teoria filantropica, ma perché l' uomo è proprietà di Dio, gli appartiene, è sua immagine. Infine, nei vv. 8-17, l' autore sacerdotale, superando lo stesso jahvista, rilegge tutto il mistero della misericordia di Dio e della sua volontà salvifica, alla luce del concetto di alleanza. Dio stipula la sua alleanza con Noè e la sua discendenza, alleanza resa solenne perché, oltre che dalla «parola», è garantita da un segno ricco di significato: l' arcobaleno. Naturalmente il concetto di alleanza che sottende Gn 9,8-17 è quello tradizionale: un patto tra Dio e l' uomo. Ma in un punto questo patto si differenzia dall' alleanza del Sinai o da quella stipulata con Abramo: in questi casi, pur se l' alleanza è dono libero dell' unico Signore, il popolo e Abramo sono posti davanti all' accettazione di tale patto. Invece la peculiarità dell' alleanza con Noè ha appunto come segno l' arcobaleno, cioè un segno che si trova tra cielo e terra, pegno quindi di una grazia che viene offerta gratuitamente senza nessuna accettazione di sorta da parte del contraente terreno. Non solo, ma il senso ebraico del termine che noi traduciamo sinteticamente con « arcobaleno » è illuminante. Arcobaleno significa piuttosto, nell' Antico Testamento, arco da guerra. La sua apparizione annuncia al mondo che Dio ha deposto il suo arco. Deponendo l' arco da guerra, Dio manifesta la sua volontà di benedizione che viene sperimentata dall' uomo nella stabilità e immutabilità dei cicli naturali (nell' ambito, cioè, degli elementi impersonali). L' uomo, dunque, pur sperimentando il caos dei rapporti umani, sociali e naturali, è invitato a lasciarsi andare nelle braccia del Dio misericordioso, fiducioso della sua benedizione e sicuro che i cicli naturali stabiliti dalla parola di Dio assicurano la sopravvivenza del mondo.

4. LA SALVEZZA: UN MISTERO DI RICONCILIAZIONE IN CRISTO (2COR 5,17-21)

La seconda lettura della memoria liturgica di Maria de La Salette si inserisce mirabilmente nella linea tematica aperta della prima. Infatti, il segno dell' alleanza con Noè, l' arcobaleno, che rappresenta il collegamento tra il cielo e la terra operato da «Dio solo», viene ora riletto alla luce di Cristo, luogo d' incontro della storia di Dio con la storia degli uomini, segno mirabile della benevolenza con la quale Dio veglia sull' umanità. Ne riportiamo ora il testo: « Fratelli, se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove. Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione. E’ stato Dio infatti a riconciliare a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione. Noi fungiamo quindi da ambasciatori per Cristo, come se Dio esortasse per mezzo nostro. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio. Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore, perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio». La « storia della salvezza » è dunque una lunga storia di alleanza, ossia la « storia » del Dio-Amore che liberamente si offre all' uomo; il rifiuto, causato dal peccato, provoca in lui collera e tenerezza allo stesso tempo. In una parola potremmo dire che la storia dell' alleanza è, quindi, una storia di continue riconciliazioni che culminano nella riconciliazione definitiva attuatasi attraverso il mistero della morte e risurrezione di Gesù Cristo. Comprendere dunque il mistero della riconciliazione significa aprirsi alla centralità del mistero di Cristo. Insegna Giovanni Paolo Il: « Dio è fedele al suo disegno eterno anche quando l' uomo, spinto dal maligno e trascinato dal suo orgoglio, abusa della libertà, datagli per amare e cercare generosamente il bene, rifiutando l' obbedienza al suo Signore e Padre; anche quando l' uomo, invece di rispondere con amore all' amore di Dio, gli si oppone come ad un suo rivale, illudendosi e presumendo delle sue forze, con la conseguente rottura dei rapporti con colui che lo ha creato. Nonostante questa prevaricazione dell' uomo, Dio rimane fedele nell' amore. [...] Noi sappiamo che Dio, ricco di misericordia, come il padre della parabola, non chiude il cuore a nessuno dei suoi figli. [...] Questa iniziativa si concretizza e manifesta nell' atto redentivo di Cristo, che si irradia nel mondo mediante il ministero della Chiesa » (RP 10). Ora, la memoria liturgica della beata Vergine Maria de La Salette segue questa linea tematica attraverso i testi delle orazioni e del prefazio, la seconda lettura e il vangelo, sviluppando però anche il tema del rapporto particolare di Maria con suo Figlio, Gesù Cristo il « riconciliatore ». Per approfondire e apprezzare ulteriormente la profondità del messaggio di san Paolo, è bene situare questa lettera in un contesto più ampio. Infatti, mentre la 1 Corinzi ci presenta un Paolo che si affatica nell' edificazione della comunità cristiana, la 2 Corinzi si sofferma sulla lotta di Paolo contro i suoi avversari che lo attaccano con insinuazioni maligne. L' apostolo, in effetti, allude a numerosi fatti accaduti a Corinto che non conosciamo accuratamente e che rendono difficile l' interpretazione della lettera stessa, ponendo un problema di ordine storico-letterario: ci si trova di fronte a una o a più lettere"? Benché, dunque, non si possa parlare di omogeneità letteraria, si può però parlare di unità teologica. Infatti le parti principali della lettera seguono un unico filone interpretativo riguardo al ministero apostolico: esso si fonda sull' azione salvifica di Dio e, nella morte e risurrezione di Cristo, comunica la fede e la salvezza mediante la riconciliazione (2Cor 5,18). Non solo, ma la gloria di tale ministero è perenne e insuperabile (2Cor 3,14). Ecco allora che Paolo abbandona il tono polemico, per esortare i Corinzi a ritessere i rapporti. La sua esortazione però non assume toni moralistici, ma si inserisce in una dimensione più ampia, quella della proclamazione della fede: « Se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove. Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo. [...] E’ stato Dio infatti a riconciliare a sé il mondo in Cristo... » (2Cor 5,l7ss). L' opera della salvezza viene presentata come una riconciliazione, ossia il passaggio creativo da una situazione di ostilità a un legame di amicizia tra Dio e gli uomini: ciò comporta un mutamento radicale nella persona riconciliata e non può essere inteso solamente come una procedura (finzione) giuridica. L' artefice della riconciliazione mediante Cristo, e al di là dello stesso Cristo, è Dio. La riconciliazione è azione esclusiva di Dio: non c' è dunque riconciliazione che parta dagli uomini, perché solo Dio può imputare o perdonare le colpe (Rm 4,7-8). E, di fatto, Paolo sottolinea come non sia il peccatore colui che è chiamato a riconciliarsi con Dio, ma come Dio sia colui che chiama a riconciliarsi con sé. Settimio Cipriani, specialista della teologia paolina, nota: « Il v. 19 è la chiarificazione del verso precedente: esso precisa meglio la natura spirituale di questa riconciliazione, che consiste appunto nel non mettere a conto, "non imputare" (v. 19), come giustizia avrebbe voluto, i peccati degli uomini. Ed essi non vengono messi a conto perché Cristo li espiò, distruggendoli, in se stesso. E chiaro però che tale riconciliazione può diventare operante solo a condizione di accettarla mediante la fede». Ora, nell' ottica di Paolo, Dio non solo è l' unico artefice della riconciliazione, ma prolunga questo mistero attraverso il ministero « apostolico » che si caratterizza appunto come ministero della riconciliazione di cui Paolo è parola vivente. « E’ stato Dio infatti a riconciliare a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione. Noi fungiamo quindi da ambasciatori per Cristo, come se Dio esortasse per mezzo nostro » (2Cor 5,19-20a). La sua parola non è dunque pura parola umana, ma parola di Dio (1Ts 2,13), in forza della quale egli può gridare: «Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio» (2Cor 5,20b). Naturalmente, la riconciliazione attuata da Dio attraverso Gesù Cristo, non avviene senza sofferenza. Il caro prezzo della riconciliazione è la croce: « Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore, perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio » (2Cor 5,20; cfr. anche Rm 5; 1Cor 15,3). Bisogna sottolineare la forza dirompente di questa affermazione dell' apostolo: personalizzando al massimo il discorso, egli dice che Cristo non solo porta il peccato, ma diviene lui stesso peccato. Ugo Vanni così commenta: « L' espressione è molto forte. Non si dice solo che Cristo prende su di sé la maledizione divina dovuta alla violazione dell' alleanza, ma che tale maledizione si identifica con Cristo crocifisso. E’ un fatto che lo riguarda personalmente. Ne deriva una conclusione: Cristo, divenuto personalmente maledizione e morendo sulla croce come tale, fa di tutto questo un' esperienza cosciente. Altrimenti si avrebbe di Cristo crocifisso uno strano automa di redenzione. L' esperienza cosciente di essere divenuto maledizione di fronte a Dio non attenua in Cristo la volontà di dedizione, ma ne fa un' esperienza altamente drammatica. (…) La morte di Gesù non è vista da Paolo come una fatalità. Essa ha un suo preciso movente interiore che la caratterizza e la qualifica: Gesù muore per un abbandono obbedienziale e amoroso verso il Padre e per amore di singoli uomini. La morte sacrificale di Cristo è, in ultima analisi, una vita donata sotto l' imperativo dell' amore » Riconciliazione e croce sono due misteri congiunti (Col 1,20-22) che danno vita a una nuova umanità. Animata dall' imperativo dell' amore, effuso nel cuore dallo Spirito, essa sperimenta la pace, e si muove verso un sempre più profondo processo di unificazione che trova la sua esemplarità e la sua fonte vitale nella morte di Cristo. Sulla croce, infatti, egli ha abbattuto il muro di separazione tra ebrei e pagani (Ef 2,16): la riconciliazione con Dio produce la riconciliazione degli uomini tra loro, e la Chiesa, corpo di Cristo, ne diventa il sacramento storico e visibile.

5. MARIA ACCANTO ALLA CROCE: « MADRE UNIVERSALE DI RICONCILIAZIONE » (GV 19,25-27)

L' invito a celebrare la misericordia di Dio, cantato nell' antifona d' ingresso e annunziato attraverso la memoria dei grandi avvenimenti della salvezza offertaci dalle prime due letture, arriva al suo culmine espressivo nella pagina del vangelo di Giovanni (19,25-27). Già la colletta in se stessa offre un orizzonte interpretativo del testo: « O Dio, che hai riconciliato a te il mondo col sangue prezioso del tuo Figlio e a lui, ai piedi della croce, hai associato Maria, sua Madre, come riconciliatrice dei peccatori, fa' che per la sua materna intercessione riceviamo da te il perdono dei peccati...». Il Dio che sancisce l' alleanza con Noè, aveva posto a testimonianza di ciò un segno tra il cielo e la terra, l' arcobaleno. Ora egli rinnova la sua alleanza una volta per te, ponendo un nuovo segno: non più l' arcobaleno, ma il legno della croce, che si erge alto sui peccati del mondo e che diviene nodo nevralgico di ogni riconciliazione. Ed è proprio ai piedi della croce che Dio ha « associato Maria » al suo Figlio Gesù, «come riconciliatrice dei peccatori». Una volta, dunque, affermata la centralità del mistero di Cristo, la liturgia fa un passo avanti, e in una prospettiva cristologica e soteriologica situa il mistero di Maria. Infatti da lei « è sorto il sole di giustizia, Cristo nostro Dio » (antifona alla comunione). Ed è lei che il vangelo di Giovanni presenta sotto la croce (Gv 19,25-27), al culmine del suo discepolato: « Se uno mi vuol servire mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servo» (Gv 12,26). Riportiamo ora il testo: « Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Cleofa e Maria di Magdala. Gesù allora, vedendo la madre e lì accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: "Donna, ecco il tuo figlio!". Poi disse al discepolo: "Ecco la tua madre!". E da quel momento il discepolo la prese nella sua casa ». Il brano in questione ha suscitato nella storia dell' esegesi cristiana lungo i secoli un notevole interesse. Diverse infatti sono le ipotesi interpretative, tutte riconducibili alla domanda se il testo contenga o meno la dottrina della maternità spirituale di Maria in rapporto alla Chiesa. Fin dal quarto secolo l' intuizione che questo episodio avesse un significato ecclesiale (diretto cioè all' intera comunità cristiana) inizia a farsi strada: le parole di Gesù superano l' ambiente e la sfera dei rapporti domestico-familiari tra figlio e madre. Lo stesso Signore presenta la Vergine come la « Madre » di tutti i suoi discepoli, la Madre spirituale della Chiesa. Nella storia della cristianità occidentale, l' interpretazione di questo testo come l' affermazione della maternità rituale di Maria sembra riconducibile a sant' Anselmo di Lucca (m. 1086). Dopo di lui intraprendono questa linea anche sant' Anselmo d' Aosta (m. 1109), Eadmero (m. 1124) e Ruperto di Deutz (m. 1130), il quale dice: « Così, soffrendo qui veramente le sofferenze del parto nella passione del suo unico Figlio, la beata Vergine ha messo al mondo la nostra salvezza universale; per questo è la madre di tutti noi ». Naturalmente la ricchezza del testo, e soprattutto l' importanza che esso riveste per la comprensione della nostra memoria liturgica, postulano un' analisi più approfondita.

a. Maria, Madre di tutti i discepoli di Cristo. Per facilitare la comprensione di questo profondissimo testo giovanneo, si è ritenuto utile adottare una forma di esposizione schematica, a passi successivi. L' analisi e la strutturazione di questo brano del vangelo seguirà le proposte degli esegeti Virgilio Pasquetto e Aristide Serra.

a. Dal punto di vista narrativo, la scena è costituita da un' introduzione (« Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Cleofa e Maria di Magdala » Gv 19,25); da una parte centrale (« Gesù, allora, vedendo la madre e lì accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: "Donna, ecco il tuo figlio". Poi disse al discepolo: "Ecco la tua madre" », Gv 19,26-27a); e da una conclusione («E da quel momento il discepolo la prese nella sua casa», Gv 19,27b). Ciò che colpisce subito l' occhio del lettore è che, pur se distinti, questi tre momenti sono concepiti dall' autore in modo unitario. Infatti il filo conduttore è costituito dal binomio « madre-discepolo », che si alterna in modo simmetrico.

b. La pericope di Gv 19,25-27 ha uno stretto rapporto con Gv 19,23-24, relativa alla tunica inconsutile: « I soldati poi, quando ebbero crocifisso Gesù, presero le sue vesti e ne fecero quattro parti, una per ciascun soldato, e la tunica. Ora quella tunica era senza cuciture, tessuta tutta di un pezzo da cima a fondo. Perciò dissero tra loro: "Non stracciamola, ma tiriamo a sorte a chi tocca". Così si adempiva la Scrittura: "Si son divise tra loro le mie vesti e sulla mia tunica han gettato la sorte". I soldati fecero proprio così». Il legame tra Gv 19,23-24 e Gv 19,25-27 è evidenziato, nel testo greco, dalle congiunzioni avversative « mèn... dè », che incontriamo in 19,24 e in 19,25a. Grammaticalmente esse hanno la funzione di far risaltare il nesso che unisce le due scene e quindi di chiarire quello che i soldati fecero in ordine alla non spartizione della tunica. In una parola ciò che era « segno » in 19,23-24, diviene realtà in 19,25-27, vale a dire: « La tunica di Cristo, non lacerata dai soldati, è un segno di quell' unità della Chiesa che sta per costituirsi dall' unione tra la Madre di Gesù e il discepolo da lui amato. E questa unione della nuova comunità messianica presente ai piedi della croce è fomentata dallo Spirito Santo che Gesù effonde quando, "chinato il capo, rese lo spirito" (v. 30) », quest' interpretazione è più verosimile rispetto a quella che, scorgendovi un' allusione alla tunica del sommo sacerdote, vede un riferimento diretto al sacerdozio di Cristo sulla croce. La tunica come segno di unità trova un riscontro non solo nella sacra Scrittura, ad esempio l' incontro di Geroboamo con il profeta Achia di Silo che lacerò il mantello nuovo in dodici pezzi indicando così l' imminente scissione del regno (1Re 11,29-39), ma anche nella tradizione cristiana.

c. Il brano che racconta la presenza di Maria sotto la croce intrattiene un forte legame letterario anche con quello che tramanda la presenza della Madre del Signore alle nozze di Cana. Infatti sia in Gv 2,1-12 sia in Gv 19,25-27 possiamo trovare i seguenti punti di contatto linguistico: - Maria non viene ricordata con il suo nome proprio, ma con i titoli « madre di Gesù » (Gv 2,1; 19,25), e « donna» (Gv 2,4; 19,26); - i due episodi sono posti dall' evangelista sotto il segno dell' « ora » di Gesù (Gv 2,4; 19,26), che simboleggia il mistero della passione, morte e risurrezione del Cristo. Il legame tra questi due brani si pone anche a livello teologico. Le nozze di Cana, cui Maria è presente, sono un prodigio messianico che riguarda l' opera specifica e propria del messia: ciò lascia intendere che anche la presenza di Maria sotto la croce riguarda in maniera non indifferente l' opera messianica di Gesù. Questa duplice presenza è accomunata dalla stessa logica interna: « Maria è presente nella nuova comunità messianica come "madre" e "donna" sia nel momento in cui essa è solo annunciata (2,1-12) sia quando essa diventa realtà (19,25-27) ». Nei vv. 26-27a possiamo riconoscere una « formula di rivelazione » sottolineata dall' uso consequenziale dei termini « vedere-dire-ecco ». L' evangelista scrive: « Gesù, vedendo la madre e lì accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: "Donna, ecco il tuo figlio" » (Gv 19,26). Questa « formula di rivelazione » è un gioco linguistico tipico delle Scritture profetiche. In esso, un profeta « vede » un' altra persona, le « dice » una parola che manifesta il ruolo assegnatole da Dio nella storia della salvezza, e specifica con l' avverbio « ecco » il tipo di missione cui il Signore la chiama. Ora, Gesù « vede » la Madre; le « dice » la parola che manifesta il suo ruolo nel piano di salvezza; e ne precisa la natura con l' avverbio « ecco » (« Donna, ecco il tuo figlio! »). Così commenta Aristide Serra: « Sappiamo che anche secondo il quarto vangelo Gesù è il profeta del Padre (Gv 4,19.44; 6,14; 7,40; 9,17), ripieno dello Spirito di Dio senza misura (Gv 1,32.33; 3,34). In forza del suo ufficio profetico, Gesù rivela a sua madre che tutti i credenti in lui, figurati dal discepolo presente sul Calvario, sono anch' essi suoi figli ». La «formula di rivelazione » investe, in questo brano, anche il rapporto di Gesù con il discepolo amato: Gesù « vede » il discepolo, « dice » la parola che illumina il suo posto nel piano salvifico, e ne specifica la natura con l' avverbio «ecco» (« Ecco la tua madre! »: Gv 19,27a). Aristide Serra continua: « Al discepolo [Gesù] manifesta che Maria è anche sua Madre. Pertanto la maternità di Maria dalla persona di Gesù si estende a tutti i suoi discepoli. Stavolta, si direbbe, è il Figlio che crea la Madre! Infatti le parole di Gesù "sono spirito e vita" (Gv 6,63). Piene come sono dell' energia divina che è lo Spirito Santo, esse creano" ciò che "dicono". Di conseguenza, Maria è costituita "Madre" (spirituale) del discepolo, e il discepolo è costituito "figlio" (spirituale) di Maria ».

e. Il testo termina così: « E da quel momento il discepolo la prese nella sua casa » (Gv 19,27b). La traduzione che però rende meglio il significato è: « E da quell' ora il discepolo l' accolse [il verbo greco è lambanein] fra le sue cose proprie [il termine greco è ta idia] ». Seguendo la proposta esegetica di Ignace de La Pot terie, uno dei massimi esperti sugli scritti giovannei, Virgilio Pasquetto nota: « Il verbo lambanein assume in Giovanni un triplice significato: a) il senso di' ' prendere", quando ha per oggetto una cosa inanimata; b) il senso di "ricevere", quando ha per oggetto un dono a contenuto spirituale; c) il senso di' ' accogliere", quando ha per oggetto Gesù, le sue parole. [...] Secondo il lessico giovanneo [...] il ta idia è sinonimo di "cose proprie", appartenenti al discepolo in quanto discepolo di Gesù, cioè al suo essere credente ». Ci troviamo di fronte al linguaggio peculiare del quarto vangelo, che utilizza termini da leggere in chiave simbolica. Giovanni non si ferma mai al significato letterale di una parola, ma lo utilizza come allusione profonda al mistero di Cristo. Nel nostro caso, le « cose proprie » entro le quali il discepolo amato accoglie Maria sono, a livello letterale, la casa o l' alloggio materiale da lui offerto alla Vergine. Ma, a livello simbolico, la casa materiale diventa quell' ambiente interiore e spirituale che caratterizza l' esistenza credente, in cui confluiscono i diversi doni ereditati dall' amore di Gesù, quali: - il potere di diventare figli di Dio (Gv 1,12); - l' acqua viva, segno della parola di Cristo e dello Spirito Santo che la fa ricordare nel cuore dei credenti (Gv 4,14; cfr. 7,37-39); - lo Spirito Santo (Gv 0,22), - la pace (Gv 14,27; 20,19.21); - il pane, ossia la parola di Gesù (Gv 6,32-35); - il pane eucaristico, vale a dire la carne del Figlio per la vita del mondo (Gv 6,51b); il comandamento nuovo: «Come io vi ho amati, così amatevi anche voi gli uni gli altri» (Gv 13,34); - la vita eterna, cioè la conoscenza del Padre come l' unico vero Dio e la conoscenza di colui che egli ha mandato, Gesù Cristo (Gv 17,2-3; 10,28); - le parole di Gesù, ossia l' insegnamento che egli ci ha rivelato in quanto portavoce ed esegeta del Padre (Gv 17,8); - la gioia (Gv 15,11; 17,13) Per esplicita e positiva volontà di Cristo, Maria è dunque parte integrante del patrimonio di fede della Chiesa di tutti i tempi. Ella è uno dei doni coi quali Gesù ha voluto arricchire la comunità dei suoi discepoli. Come tale, il discepolo amato, che rappresenta tutti i credenti, accoglie Maria in quella mistica «casa» che è la sua unione con il Cristo, Maestro e Signore.

b. Maria, Madre di tutti i «dispersi figli di Dio». Il racconto giovanneo del Calvario costituisce certamente una scena di rilevanza teologica: sotto la croce vi sono quattro donne, tra cui Maria, e il discepolo prediletto. Gesù, rivolgendosi in primo luogo a Maria, non soltanto l' affida a Giovanni, ma conferisce a lei un compito particolare. Tutto questo si svolge in un contesto messianico evidenziato sia dal luogo da dove Gesù affida sua madre a Giovanni, sia dal termine con il quale chiama sua madre: «donna». Il luogo dell' azione è la croce, potenza di Dio attraverso la quale si avvera la profezia di Caifa: « Essendo sommo sacerdote di quell' anno, (Caifa) profetizzò che Gesù doveva morire per la nazione; e non per la nazione soltanto, ma anche per radunare nell' unità i "dispersi figli di Dio" » (Gv 11,51-52). Facendo menzione dei «dispersi figli di Dio», Giovanni si ricollega ad una serie di temi anticotestamentari di tipo escatologico-messianico. Infatti l' Antico Testamento con i «dispersi figli d' Israele» indica tutta la vicenda della dispersione del popolo, con particolare riferimento all' esperienza dell' esilio babilonese. Con l' esilio e la distruzione del tempio e di Gerusalemme, Israele viene privato degli elementi costitutivi della sua identità nazionale e culturale, e ritorna ad essere un « non popolo », paragonabile ad una immensa distesa di ossa aride o alla discesa nella tomba. Questa situazione di profonda crisi non è comunque l' ultima spiaggia per gli esuli: la parola profetica continua a risuonare anche in terra straniera, e si fa strada la convinzione che l' esilio può diventare un' esperienza purificatrice a seguito della quale Dio « risuscita » il suo popolo e lo « raduna » dalla dispersione in mezzo ai gentili, per condurlo verso la sua terra grazie a un suo servo, il Servo sofferente del Signore (Is 49,5-6), mediatore della nuova alleanza che si estenderà a tutte le nazioni. In tale contesto, assumono una rilevanza particolare sia il tempio sia la stessa città di Gerusalemme. Il tempio diviene il simbolo privilegiato della riunificazione, il luogo santo per eccellenza dove Ebrei e gentili si raduneranno come nuovo popolo dell' alleanza per adorare l' unico e medesimo Signore. Gerusalemme, colei che aveva patito, con l' esilio, la sterilità e la desolazione, viene salutata come « madre » di questi « figli dispersi », colei che assapora la gioia inaspettata di una maternità prodigiosa e universale. Le difficoltà incontrate durante il ritorno dall' esilio e la ricostruzione, oltre alle successive dominazioni straniere, prima ellenistica e poi romana, contribuirono a mantenere nella coscienza d' Israele la convinzione di essere ancora un popolo « disperso ». Per cui si cominciò ad attendere il compimento pieno degli oracoli profetici con l' avvento del messia: attesa del messia e attesa della riunificazione dei dispersi di Israele divennero un tutt' uno. E questa la base che consente a Giovanni (e anche agli altri evangelisti) di scoprire il compimento di queste profezie nella persona di Gesù, Servo sofferente del Signore (Gv 1,29.36), « tempio non costruito da mani d' uomo »(Mc 14,58). Dall' alto della croce egli attira tutti a sé (cfr. Gv 12,32) e raduna tutti coloro che, sotto l' impulso dello Spirito Santo, adorano il Padre (cfr. Gv 4,23). Tutti i temi e le risonanze connesse alla « riunione dei dispersi figli di Dio » vengono dunque riletti in chiave cristologica. Nel pensiero dell' evangelista i « figli di Dio » sono non soltanto i membri del popolo d' Israele, ma anche tutti coloro che si aprono a Cristo e alla sua parola (Gv 1,12; lGv 3,1.2.9.10; 5,1.2). La « dispersione » affligge l' umanità intera, schiava del maligno (il lupo), che rapisce e disperde (Gv 10,12; 16,32). Cristo, «Agnello di Dio » (Gv 1,29.36), cioè Servo sofferente del Padre, muore « per radunare nell' unità i dispersi figli di Dio », Ebrei e non Ebrei (Gv 11,51-52). In virtù della sua morte-risurrezione, egli opera il raduno del genere umano, disgregato dal male, in un altro tempio e in un' altra Gerusalemme. Il tempio nuovo è la sua stessa Persona, nella quale il Padre e il Figlio sono una cosa sola (Gv 10,30). E la nuova Gerusalemme-madre èla Chiesa (cfr. Gv 10,16), simboleggiata nella persona della Madre di Gesù accanto alla croce, chiamata col titolo di «donna» (Gv 19,26). Osserva Aristide Serra, che ha particolarmente approfondito questo tema: « In luogo di Gerusalemme-madre dei dispersi, radunati dal Signore entro le sue mura, e particolarmente nel tempio, subentra ora Maria-Madre dei dispersi figli di Dio, radunati da Gesù in quel mistico tempio della nuova alleanza, costituito dall' unione del Padre col Figlio. Nell' economia del patto nuovo, sancito col mistero pasquale, la Madre di Gesù diviene la personificazione della nuova Gerusalemme, cioè della figlia di Sion. [...] E siccome nel linguaggio biblico-giudaico Gerusalemme era raffigurata abitualmente sotto l' immagine di una "donna", così si comprende perché Gesù si rivolga alla Madre con l' appellativo di "donna". In Maria, Gesù addita la personificazione della nuova Gerusalemme-madre, cioè la Chiesa-madre ». E Gianfranco Ravasi aggiunge: « La "femminilità" di Sion, il suo essere grembo e centro vivo al quale si riferiscono i figli da essa nati, è legata all' ingresso di Dio nella storia di Israele e alla sua rivelazione in essa. [...] Parallelamente la femminilità e il grembo di Maria sono legati all' ingresso di Dio nella storia in una forma piena e radicale. In Maria la Parola si fa carne, umanità, storia. [...] La vicenda della "donna" Sion comporta, come si è visto, molte tappe: quella della filiazione e quella nuziale, la tappa materna e quella della vedovanza e della sterilità. Anche in Maria si compie questo itinerario: Ella è "figlia di Dio, e serva" del Signore (Lc 1,38) nel senso biblico della totale adesione ad una missione ricevuta da espletare per la storia della salvezza. Come Abramo, Mosè, Davide, i profeti e lo stesso Servo di Jhwh, Maria è uno strumento fondamentale nella rivelazione di Dio. Come "serva" e "figlia" Maria è "colei che crede nell' adempimento delle parole del Signore" (Lc 1,45). Come sposa e madre, Maria diventa segno della Chiesa che genera nell' eucaristia, nella parola e nell' amore il Cristo all' interno della comunità credente (Ap 12) (…) Sion è anche madre vedova e sofferente ma resta pur sempre feconda. Anche Maria ai piedi della croce giunge alla spoliazione totale, all' estrema povertà perdendo il Figlio. Ma proprio in quell' istante riceve come figli i fratelli del Cristo, tipizzati nel discepolo che Gesù amava, continuando così nei secoli la sua missione materna (Gv 19,25-27)». In una parola, a partire dall' « ora », momento della morte di Gesù, culmine della sua esaltazione e glorificazione, il discepolo « che Gesù amava », simbolo cioè di tutti gli ascoltatori e osservanti della parola, accoglie Maria-Chiesa nella sua esistenza credente. « Nasce così la comunità messianica dei tempi nuovi, unica e indivisa. Entro il suo grembo sono radunati i dispersi figli di Dio. Se in Adamo gli uomini si sentono "dispersi" a motivo dell' egoismo disgregatore, in Gesù, obbediente fino alla morte di croce, si sentono "radunati" nell' unità dell' Amore del Padre e del Figlio. Come "serva del Signore", Maria è chiamata a collaborare a questo disegno divino, con il titolo di "Madre" ». In qualità, quindi, di « Madre dei dispersi figli di Dio », Maria è a servizio del misericordioso disegno del Dio dell' alleanza, che vuole « radunare » tutti gli uomini nel « tempio » vivente che è Cristo. In tal senso possiamo dire che Maria è a servizio della « riconciliazione », quella riconciliazione che vuole rompere ogni dispersione e ogni violenta rottura, causate dall' egoismo dell' uomo, e costruire l' unità. Il servizio di Maria trova la sua collocazione nella grande mediazione della Chiesa e la sua icona evangelica nell' episodio delle nozze di Cana (Gv 2,1-12). Qui la missione della madre (non a caso identificata con il titolo «donna ») consiste nel suscitare l' obbedienza alla parola di Gesù, sulla scia di Mosè che, sul Sinai, invitava il popolo ad obbedire all' alleanza. « Così Gesù diede inizio ai suoi miracoli in Cana di Galilea, manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui » (Gv 2,11). A Cana, Maria esercita il compito della mediazione portando i servi a fare quanto Gesù dice. « Da qui nasce il miracolo, a seguito del quale i discepoli credono in Gesù. E grazie alla fede, si crea l' unità attorno alla persona di Cristo medesimo. Non v' è forse una specie di reazione a catena in tutto questo? Maria - Gesù - i servi - i discepoli - la comunità radunata intorno a Gesù. Ma il primo impulso è dato da Maria! » Maria, Madre universale, costruisce l' unità portando al Cristo; ella non si sostituisce al Cristo, né tanto meno si frappone tra gli uomini e Cristo, quasi ad evitare l' incontro perché potrebbe essere pericoloso e scatenare la collera del Giudice universale. E Maria non è neppure colei che occupa lo spazio vuoto che intercorre tra noi creature e Cristo Dio. Questi modi di pensare (e di presentare) la persona e la missione materna di Maria sono estremamente pericolosi, perché inducono chi ascolta a un atteggiamento di timore e di paura nei confronti di Cristo Gesù, in netto contrasto con il dato del vangelo dove il Signore è l' icona fatta carne dell' amore infinito del Padre e della sua misericordia nei confronti dell' uomo peccatore. Inoltre essi contrastano anche con la dottrina biblica dell' incorporazione degli uomini a Cristo: qui non esiste nessun vuoto da colmare, perché l' unione con Gesù è immediata (cioè senza bisogno di mezzi interposti) attraverso la fede e i sacramenti. Maria sarà, nella Chiesa, ciò che è stata a Cana. Tullio Ossanna scrive: « Lo scopo dell' azione materna di Maria sui figli non è lei, ma loro, e dietro a loro il disegno del Padre. Maria non toglie ai figli la libertà né la possibilità di crescere, non li incentra su di sé; al contrario, l' azione di Maria è diretta a far nascere e crescere in loro la fede come nei discepoli a Cana; è per donare la grazia-vita, per unirli a Cristo capo e per fare con loro Chiesa, famiglia di Dio; è per la loro piena felicità terrena, per aiutarli a dare la risposta gioiosa e totale alla loro vocazione e giungere alla felicità eterna ». Come afferma il papa Giovanni Paolo Il nell' esortazione apostolica Reconcilatio et paenztentia, Maria « è diventata l"' alleata di Dio", in virtù della sua maternità divina, nell' opera di riconciliazione » (RP 35). Il titolo « alleata di Dio nell' opera di riconciliazione » sintetizza bene la funzione di Maria all' interno del mistero della riconciliazione e della riunificazione, divenendo chiave di lettura del prefazio della memoria liturgica della beata Vergine Maria de La Salette: « Nella tua immensa bontà tu non abbandoni gli erranti, ma in molti modi li richiami al tuo amore. Tu hai dato alla Vergine Maria, totalmente ignara della colpa, un cuore pieno di misericordia verso i peccatori, che, volgendo lo sguardo alla sua carità materna, si rifugiano e implorano il tuo perdono; contemplando la sua spirituale bellezza, combattono l' oscuro fascino del male; meditando le sue parole e i suoi esempi, sono attratti a osservare i comandamenti del tuo Figlio...». Il mistero della riconciliazione è un mistero di amore continuamente rinnovato, frutto di quella fedeltà di Dio che richiama continuamente gli uomini al suo amore. Maria, alleata di Dio, in questo mistero di amore che liberamente si dona, è via di riconciliazione perché i peccatori, « volgendo lo sguardo alla sua carità materna », « contemplando la sua spirituale bellezza », sperimentando la ricchezza di misericordia del suo cuore, «meditando le sue parole e i suoi esempi», sono « attratti » a volgere lo sguardo verso il Figlio Gesù Cristo, e osservandone i comandamenti rendono il vero culto al Padre e costruiscono l' unità fraterna di tutti gli uomini. In Maria alleanza con Dio e maternità universale si compenetrano reciprocamente. Nell' udienza dell’11 maggio 1983 Giovanni Paolo Il ribadiva: « La maternità di Maria non è soltanto individuale. Essa ha un valore collettivo che si esprime nel titolo di Madre della Chiesa. Sul Calvario infatti ella si unì al sacrificio del Figlio, che mirava alla formazione della Chiesa; il suo cuore materno condivise fino in fondo la volontà di Cristo di "riunire i figli di Dio che erano dispersi" (Gv 11,52). Avendo sofferto per la Chiesa, Maria meritò di diventare la Madre di tutti i discepoli di suo Figlio, la Madre della loro unità » A queste parole, che esprimono la fede della Chiesa, il pontefice fa seguire una nota pastorale di notevole importanza e attualità: « La Chiesa riconosce in lei una Madre che veglia sul suo sviluppo e che non cessa di intercedere presso il Figlio per ottenere ai cristiani disposizioni più profonde di fede, di speranza, d' amore. Maria cerca di favorire il più possibile l' unità dei cristiani, perché una Madre si sforza d' assicurare l' accordo tra i suoi figli. Non c' è un cuore ecumenico più grande né più ardente di quello di Maria ». Il mondo contemporaneo anela all' unità, ma sperimenta continue divisioni e frazioni sia a livello di singoli individui che di nazioni e popoli. L' opera redentrice di Cristo, però, si situa al centro di questo dinamismo unificatore, come sua sorgente e realizzazione massima; e insieme a Cristo c' è Maria. La maternità ricevuta sul Calvario ha trasformato la donna di Nazaret in donna planetaria. « Se, dunque, il nudo legno della croce era simbolo di tutte le marginalità causate dalla violenza, Colui che vi muore sopra pregando e perdonando, il Crocifisso, lo trasfigura in segno di riconciliazione. Da quell' ora Maria, in quanto Madre universale, è chiamata a servire questo disegno di riparazione dell' unità infranta. [...] L' ispirarci pertanto a santa Maria, Madre Addolorata per la sorte del Figlio e di tutti i figli, deve aiutarci a scoprire gli spazi più urgenti ove abbattere i muri che proteggono le nostre orgogliose sicurezze ». La maternità di Maria risplende nella maternità della Chiesa; la sua universalità si deve dunque fare stimolo alla riscoperta della « cattolicità » ecclesiale. Se un passato non troppo distante pensava a questa nota essenziale della comunità cristiana in termini di uniformità piatta, l' esperienza di Maria induce a percorrere una strada diversa. E la via della missionarietà e della nuova evangelizzazione, dove la Chiesa esce da se stessa per farsi incontro agli uomini e alle culture e abbracciarne così la vita. Ecco il motivo per cui la liturgia della memoria della beata Vergine Maria de La Salette, rileggendo la storia anticotestamentaria di Giuditta (Gdt 13,18-20; Volgata 13,23-25), vera figlia d' Israele e allo stesso tempo personificazione della nazione, fa celebrare Maria « serva del Signore » nel salmo responsoriale. Ella appare come colei che esce da se stessa e dal suo mondo privato per abbracciare la vita e le sofferenze del suo popolo: « Benedetta tu fra tutte le donne. Benedetta sei tu, figlia, dal Signore Dio altissimo più di tutte le donne sulla terra. Benedetto il Signore Dio che ha creato il cielo e la terra e ti ha guidato a troncare la testa del capo dei nostri nemici. Il Signore ha tanto esaltato il tuo nome, che sulla bocca di tutti sarà sempre la tua lode. Tutti ricorderanno in eterno la potenza del Signore, perché hai esposto la vita per sollevarci dall' abbattimento davanti al nostro Dio ». Solo in questo dinamismo di offerta personale, che è il fondamento di ogni maternità, divengono possibili l' unità e la riconciliazione del mondo.

6. NOSTRA SIGNORA DE LA SALETTE: « RICONCILIATRICE DEI PECCATORI »

Subito dopo l' apparizione della Vergine a La Salette, i primi gruppi di pellegrini che salivano sui luoghi dell' evento si rivolgevano a Maria invocandola come « riconciliatrice dei peccatori ». Ciò che spontaneamente dettava loro il cuore a contatto con l' evento de La Salette non nasceva dal nulla, ma si inseriva in quel filone interpretati-vo del ruolo della Vergine nell' economia della salvezza, già presente nella tradizione della Chiesa. Ora la Chiesa, approvando l' evento de La Salette e conferendole una memoria liturgica propria, non solo ci aiuta a comprendere il ruolo di Maria nel mistero della riconciliazione, ma offre dei motivi per poter anche noi, oggi, invocarla come « riconciliatrice dei peccatori ». La liturgia, attraverso la memoria della beata Vergine Maria de La Salette, chiama il popolo di Dio a celebrare l' amore misericordioso del suo Signore, che si è manifestato nella storia d' Israele attraverso una serie di alleanze e di riconciliazioni, per poi culminare nella « nuova alleanza » stipulata attraverso la morte e risurrezione di Gesù Cristo. In tale contesto esistenziale di alleanze e di riconciliazioni, sul fondamento della stretta relazione con il Figlio Gesù Cristo, Maria, « alleata di Dio », svolge il suo ruolo materno di mediazione universale. In lei si rifrange il volto misericordioso di Dio che la rende « tutta bella», affinché gli uomini, contemplando la sua bellezza, possano ritrovare il fondamento di ogni benedizione in Dio Padre, e riconciliarsi per mezzo di Cristo, nello Spirito, con lui. Ebbene: tutti gli elementi emersi dalla liturgia divengono per noi chiave di lettura dell' evento de La Salette. Lo scopo, dunque, di quest' ultimo paragrafo sarà quello di ricercare brevemente i dati sopra evidenziati nella « simbologia » de La Salette, simbologia emergente sia dal contesto ambientale che dal messaggio. Si tratta, quindi, di un ulteriore approfondimento di quanto già emerso nell' interpretazione dell' apparizione alla luce della Scrittura, sia in senso teologico che esistenziale. Ripercorriamo allora alcuni punti del messaggio.

a. «Avvicinatevi, figli miei...» L' evento de La Salette è un rinnovato invito di Dio ad avvicinarsi a lui, e attraverso la « bellezza » di Maria (la « bella Signora », così la chiamano i due ragazzi) sperimentare la sua « misericordia ». In tal senso Maria non è il centro dell' apparizione, né lo è il suo messaggio; ella non annunzia se stessa. La povertà del vestito, il grembiule, il luminoso crocifisso che porta sul petto, sono segni evidenti che lei è li per manifestare la centralità del mistero di Dio Padre misericordioso, il quale ci ha riconciliati attraverso l' umile servizio del Figlio dell' uomo che va incontro alla morte e alla risurrezione per noi. Soprattutto il vestito della bella Signora, così come descritto dai due veggenti, assume una rilevanza particolare. Maria veste un abito popolare, semplice, scarno, tipico delle donne del tempo. Tale semplicità viene rimarcata dal grembiule che le cinge i fianchi, segno inequivocabile del servizio. Si può dunque incontrare Dio e avvicinarsi a lui solo se ci si confronta con il messia Servo: « Gesù si alzò da tavola, depose le vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinse attorno alla vita. Poi versò l' acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli » (Gv 13,3-5). L' acqua è presente anche a La Salette. Quando i ragazzi hanno scorto la figura della bella Signora all' interno del globo di luce, questa si presentava seduta su un pezzo di roccia posta accanto a una fontana semiasciutta. Dopo l' apparizione, quella fontana non ha più cessato di versare acqua. Proprio quest' acqua che sgorga perennemente dalla fontana arida su cui la Vergine si è mostrata, ricorda che la bellezza di Dio si manifesta nel volto umiliato e disprezzato del Servo crocifisso. La santità del Dio dell' alleanza risplendente in Gesù (Eb 1,1-4) non consiste nella separazione dal mondo umano, ma nella condivisione di vita. L' autore della lettera agli Ebrei fa di questa solidarietà la fonte del sacerdozio di Cristo: « Infatti colui che santifica e coloro che sono santificati provengono tutti da una stessa origine; per questo non si vergogna di chiamarli fratelli. [...] Poiché dunque i figli hanno in comune il sangue e la carne, anch' egli ne è divenuto partecipe. [...] Della stirpe di Abramo si prende cura; perciò doveva rendersi in tutto simile ai fratelli, per diventare un sommo sacerdote misericordioso e fedele nelle cose che riguardano Dio » (Eb 2,11.14a.16b.17a). Così commenta Albert Vanhoye: « Cristo riconosce che il dinamismo dell' amore generoso gli viene dal Padre ed egli ringrazia il Padre per questo dono divino. Cristo, nel contempo, apre il suo cuore e tutto il suo essere umano all' azione dello Spirito Santo in modo da superare tutti gli ostacoli e da essere trasformato dalla carità divina in causa di salvezza" per tutti i fratelli. [...] Con questo, Cristo ha determinato per noi il nuovo modo di concepire e di attuare l' oblazione: non più come atto rituale, effettuato in margine alla vita quotidiana, bensì come una trasformazione della vita stessa: uniti al suo cuore in un movimento di gratitudine e di adesione alla volontà salvifica di Dio, presentiamo continuamente le nostre persone a Dio Padre per essere messi al servizio dei suoi figli, nostri fratelli e sorelle ».

b. «Da quanto tempo soffro per voi...» Maria a La Salette ci appare in tutto il suo dolore, quel dolore profetizzato da Simeone: « Una spada ti trafiggerà l' anima » (Lc 2,35). Amico costante insieme a tutte le altre cose che ella « meditava nel suo cuore » (Lc 2,51), svelatosi nella sua essenza profonda ai piedi della croce (Gv 19,25-27), esso è divenuto ora « dolore continuato», causato dalla cecità di coloro che sono « dispersi » nelle vie del peccato. Come Gesù è «l' uomo dei dolori che ben conosce il patire» (Is 53,3), così Maria è la donna dei dolori. Ella incarna la perfetta unione del discepolo con il suo Maestro fino alla croce. Stare accanto alla croce, quella propria e altrui, è e rimane la missione fondamentale della Chiesa. Maria piange, soffre: è la continua passione di Dio in Gesù Cristo per l' umanità. La comunità è chiamata a riconoscersi in questa passione, vivendo in prima persona l' esperienza del rifiuto e della marginalità causate dal peccato. E’ quanto Maria vive a La Salette: « Coloro che guidano i carri non sanno imprecare senza usare il nome di mio Figlio. [...] Bestemmiavate il nome di mio Figlio». E questo avviene in un movimento di solidarietà che si fa, in Cristo, sostituzione vicaria: « Queste sono le due cose che appesantiscono tanto il braccio di mio Figlio. [...] Se il mio popolo non vuole sottomettersi, sono costretta a lasciare libero il braccio di mio Figlio. Esso è così forte e così pesante che non posso più sostenerlo ». Scrive Enzo Franchini: « Dio ama i peccatori, Dio ama i suoi nemici. [...] Dio non può permettersi di perdere il mondo degli infami, perché gli stanno a cuore. [...] Non ha dunque altra scelta che quella di gravarsi personalmente del loro peccato in Cristo, l' agnello che porta il peccato del mondo. (…) Cristo non si sostituisce nel senso volgare di mettere da parte l' uomo per far fronte da solo al suo compito e comunicare all' uomo una giustificazione già fatta. Piuttosto, egli diventa soggetto attivo nell' uomo, un solo corpo, come avviene nel battesimo e nell' eucaristia, dunque anche nella penitenza. La comunione con i suoi misteri (...) ci abilita a vivere nella fede la nostra stessa vita come se fosse egli a viverla in noi »" Ciò significa che per il cristiano è possibile, come per Gesù e in unione con lui, sostituirsi al fratello divenendo partecipi della sua vita: a La Salette Maria parla il dialetto dei due ragazzi («Voi non capite, figli miei? Ve lo dirò diversamente »), indossa il vestito delle contadine della regione... Enzo Franchini continua: « Non soltanto Cristo, anche la Chiesa vive nel fratello, divenendone sorgente di conversione. Non basta dire che Cristo è nella Chiesa: se si è logici, occorre dire che, da quel momento, la Chiesa opera come Cristo, capace dunque di divenire, con la forza di Cristo, sorgente di iniziativa salvifica. [...] La sacerdotalità ecclesiale, fedele a rinnovare nella nostra carne la potenza di Cristo, ci rende a nostra volta Spirito vivificante, rendendo valida la nostra offerta a pro dei peccatori. [...] La solidarietà coi peccatori costringe, infatti, a rientrare nel cuore pesante della storia. La rappresentanza, che è la funzione attiva della sacerdotalità cristiana, mette in gioco l' essere, e non solo l' operare le opere buone di una carità sociale; per questo è altrettanto più esigente. Essa comporta la più profonda teologalità, e non soltanto la moralità del comportamento. [...] Solo "scendendo con Cristo in fondo all' abisso del mondo" (Origene) possiamo divenire "forza vitale per gli altri" (Gregorio di Nazianzo). Non ci è dunque chiesto un improbabile pagare per gli altri, ma un seminarci dentro gli altri, in forza della comunione, perché loro trovino in sé le risorse della Chiesa come un' altra forza ». La cooperazione di Maria e della Chiesa all' opera salvifica del Figlio trova quindi la sua autenticità e la sua efficacia solo in questa solidale comunione con la croce.

c. «Se il mio popolo non vuole sottomettersi...» Maria, « nuova Gerusalemme », Madre di tutti i « figli dispersi di Dio », a La Salette si rivolge ad essi in qualità di unico « popolo di peccatori », invitandoli a riconciliarsi con Dio attraverso la conversione del cuore. La riconciliazione è «riunificazione» di tutti i « figli dispersi » nel « tempio escatologico », Gesù Cristo, per adorare il Padre sotto l' influsso dello Spirito. La riunificazione è dunque il contenuto della « sottomissione » e il fine della « penitenza », che è « ascesa » faticosa dell' uomo: rinunciando al pane materiale, egli si ricorda che non vive solo di pane, «ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Mt 4,4). In questa assimilazione della e alla parola del Signore, la persona è in grado di riunificare se stessa, e di riunificare le sue relazioni con il mondo e con Dio. Il peccato è infatti dispersione (alienazione) da sé, dal mondo e da Dio. Rifiutando il Cristo, l' uomo perde il senso della sua vita, ossia la sua vocazione profonda; Maria dice: « Coloro che guidano i carri non sanno imprecare senza usare il nome di mio Figlio. [...] I bambini al di sotto dei sette anni saranno colpiti da tremito e morranno tra le braccia di coloro che li terranno ». Perde il senso del suo essere nel mondo. La Vergine proclama: « Vi ho dato sei giorni per lavorare, mi sono riservato il settimo e non me lo volete concedere. [...] Se il raccolto si guasta, la colpa è vostra (...). Se avete del grano, non seminatelo. Quello seminato sarà mangiato dagli insetti e quello che verrà cadrà in polvere, quando lo batterete. Sopraggiungerà una grande carestia ». Perde il senso di Dio. Maria denunzia: «Bestemmiavate il nome di mio Figlio. [...] Fate la vostra preghiera, figli miei? Non molto, Signora, rispondono entrambi. Ah, figli miei, bisogna proprio farla, sera e mattino. [...] D' inverno, quando non sanno che fare, vanno a messa solo per burlarsi della religione. In Quaresima vanno alla macelleria come i cani».

d. Mi è stato affidato il compito di pregarlo (mio Figlio) continuamente per voi...» Maria, a La Salette, è « riconciliatrice dei peccatori » non solo perché è associata al mistero della sofferenza di Dio, in forza del quale invita gli uomini a convertirsi, ma anche perché svolge un ruolo di mediazione: attraverso i « suoi meriti e le sue preghiere » (colletta) noi possiamo chiedere a Dio Padre di concederci il « perdono delle colpe ». La preghiera di Maria (e di conseguenza la preghiera della Chiesa) non deve essere compresa solo come richiesta fatta da un subalterno al superiore, ma ancora e più profondamente come continua trasformazione in Cristo, offerta gratuitamente da Dio. La preghiera esprime il dinamismo dello Spirito (Rm 8,14-30) che, per iniziativa del Padre, costruisce la persona ad immagine del Signore: « Sono stato crocifisso [il verbo è al passivo, per indicare l' azione libera e originante di Dio] con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio che mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20; cfr. 2Cor 3,18). Colui che prega dilata il suo orizzonte vitale e fa suoi gli orizzonti di Gesù. Essi altro non sono che la salvezza di ogni uomo e l' abbattimento di ogni muro di separazione (Ef 2,13-18). Sotto la croce, Maria ha compiuto questo passaggio: il discepolo, figura di ogni uomo, non è un estraneo o un lontano, ma è figlio («Da quanto tempo soffro per voi! [...] Mi è stato affidato il compito di pregarlo continuamente per voi. [...] Per quanto pregherete e farete, mai potrete compensare la pena che mi sono presa per voi»). E così, a La Salette, sono « figli » Maximin e Mélanie, che vengono chiamati dalla bella Signora con questo titolo per ben nove volte: la loro vicenda quotidiana è la vita stessa della Madre: « Se avete del grano, non seminatelo. [...] Sopraggiungerà una grande carestia. [...] Fate la vostra preghiera, figli miei? Ah, figli miei, bisogna proprio farla, sera e mattino. Quando non potete far meglio, dite almeno un Pater e un' Ave Maria. Quando potete fare meglio, ditene di più. [...] Avete mai visto del grano guasto, figli miei? Ma tu, figlio mio, lo devi aver visto una volta con tuo padre, verso la terra di Coin. (…) Al ritorno, quando eravate a mezz' ora da Corps, tuo padre ti diede un pezzo di pane, dicendoti: "Prendi, figlio mio, mangia ancora del pane quest' anno, perché non so chi ne mangerà l' anno prossimo, se il grano continua in questo modo ». Inoltre, va notato che Maria, a La Salette, esprime chiaramente il fatto che il suo essere Madre degli uomini è un « compito », una missione che le è stata affidata. La Vergine non si arroga diritti e preminenze che non le competono, ma testimonia la sua vocazione peculiare, ricevuta in modo del tutto particolare sotto la croce: « Donna, ecco il tuo figlio » (Gv 19,26). Vocazione che richiede, come il giorno dell' annunciazione, il suo sì libero e totale; quel consenso che la rende, al dire dei padri della Chiesa e soprattutto di san Giustino e sant' Ireneo di Lione, « nuova Eva », madre di tutti i viventi. Così, la maternità e la mediazione orante di Maria (e della Chiesa) esprimono « il suo continuo impegno per la realizzazione della Chiesa, la sua assistenza e la sua guida per il riscatto della storia dell' uomo e della società umana da ogni processo o forma di involuzione e di degradazione, il suo esempio e il suo aiuto per la promozione e liberazione di tutto l' essere umano, maschio o femmina, da ogni situazione di oppressione, asservimento, pregiudizio ». In altre parole, la preghiera materna di Maria ricorda (e attualizza) la vocazione dell' intera comunità cristiana ad essere, in Cristo, popolo offerto per la vita del mondo: « Se si convertono, le pietre e le rocce si tramuteranno in mucchi di grano e le patate nasceranno da sole nei campi ». Osserva il teologo protestante Dietrich Bonhoeffer, morto martire, nel 1945, nel campo di concentramento nazista di Flossenburg: « Ogni vita umana è per essenza una vita vicariamente responsabile. Sostituzione e quindi responsabilità sono possibili soltanto mediante il dono totale della propria vita al prossimo. Soltanto chi non pensa a sé vive responsabilmente, ossia vive. (…) La responsabilità, intesa come vita e azione vicaria, è essenzialmente un rapporto da persona a persona. [...] Il giusto soffre a causa del mondo, l' ingiusto ... (...) In certo senso egli porta il sensorium Dei [ossia il cuore di Dio] nel mondo. [...] La risposta deI giusto alla sofferenza che il mondo gli procura è benedizione. Questa è stata la risposta di Dio al mondo. [...] Dio non ricambia con la stessa misura, e così deve fare anche il giusto. Non condannare, non rimproverare, ma benedire. Il mondo vive della benedizione di Dio e del giusto ».

4. Alcune linee di spiritualità dei missionari di Nostra Signora de La Salette

La spiritualità della congregazione dei Missionari di Nostra Signora de La Salette trova la sua origine nel fatto de La Salette; nasce e si sviluppa nel contesto sociale e religioso della seconda metà dell' Ottocento francese ed europeo. In tal senso è chiaro che se essa vuole essere ancora oggi di stimolo per l' uomo contemporaneo a ricercare e vivere la santità, ha bisogno di una rilettura attualizzante che la renda significativa nel quadro sia delle esperienze culturali che delle esperienze ecclesiali. Questa lettura ermeneutica è lo scopo del presente capitolo: a partire dalle acquisizioni della spiritualità contemporanea, dalla spiritualità mariana e dal patrimonio della congregazione codificato principalmente nella Regola di vita rinnovata alla luce delle indicazioni del Concilio Vaticano Il, verranno delineati alcuni possibili itinerari per vivere oggi la grazia de La Salette.

1. LA SPIRITUALITÀ CONTEMPORANEA

Ogni spiritualità che voglia dirsi cristiana, trova la sua ragion d' essere nell' imitazione di Cristo alla luce del vangelo. In tal senso, la spiritualità non ha tempo: essa si situa al di sopra delle mode e dello stesso divenire storico. Cristo e il suo messaggio sono infatti immutabili; lo stesso, però, non si può dire delle società e delle culture, perché sono entità soggette ai cambiamenti storici. Questi portano con sé nuovi comportamenti, nuovi linguaggi, nuove scoperte. Si può e si deve dunque parlare di spiritualità contemporanea perché, come afferma Tullio Goffi, « è necessario che il mistero pasquale di Cristo sia veicolato nell' intimo dell' esistenza di ogni generazione; che permei innovando radicalmente ogni carne umana; che vivifichi trasformando tutto quanto fiorisce tra le fragilità terrestri. [...] Lo Spirito effonde il fermento pasquale di Cristo anche nell' odierno umanismo socio-culturale ». Ora, fino all' inizio della seconda metà del XX secolo, la spiritualità cristiana era ancora innestata su un contesto socio-culturale di stampo calvinistico, per cui essa era tutta orientata a un grande spirito di laboriosità e accompagnata da un profondo senso dell' autorità e della disciplina. In tale ambiente la spiritualità si caratterizzava come un sistema ben compatto, proponendo un cammino ascetico ben programmato che riteneva l' esperienza mistica un dono eccezionale e possibile solo a chi fosse passato in un prolungato cammino di mortificazione. L' evoluzione culturale e tecnologica che si è sviluppata soprattutto a partire dalla seconda metà del nostro secolo ha prodotto un' attenzione maggiore ai valori dell' ambito terreno. Al dire di Dietrich Bonhoeffer, l' uomo contemporaneo, giunto alla « maggiore età », ricerca il suo vivere nello Spirito di Dio in un' autonoma responsabilità personale, « non ai limiti ma al centro dell' umano, non nelle debolezze ma nella forza, non nella morte e nella colpa, ma nella vita e nel bene che è nell' uomo ». Il nuovo modello di spiritualità appare, da una parte, come liberazione da un ascetismo esasperato e da uno schematismo spirituale e da quella ecclesiastica in genere. Dall' altra si caratterizza per un rafforzato senso relazionale e personalistico: « L' uomo spirituale, liberato dalle tradizionali infrastrutture ascetiche, ormai aspira a immettersi in relazioni spirituali: comunione personale intima con Dio nello Spirito di Cristo; comunione ecclesiale nel corpo mistico del Signore, comunione tra fratelli nel dialogo di fede e carità [...] comunione con le realtà terrene per avviarle verso una concorde aspirazione al regno di Dio ». La spiritualità contemporanea trova quindi i suoi orizzonti non nella concezione della «fuga mundi», ossia dell' abbandono della realtà mondana, ma in quelli propri della comunione della relazione, che trovano il loro apice massimo nel mistero dell' incarnazione. Ciò comporta l' ingresso, sia nella riflessione teologica che nella prassi, di categorie di esigenze nuove, quali solidarietà, la promozione umana, la lotta di liberazione, l' inculturazione. Dall' interno di questo nuovo ambiente culturale, Stefano De Fiores tenta una definizione di spiritualità: essa è « la coincidenza permanente e unificante dello spirito umano con lo Spirito divino ». In tal senso l' uomo spirituale è colui che non cammina solamente secondo uno schema di prudenza razionale, immettendosi in « attività virtuose e socialmente proficue ». Ma è colui che si lascia inabitare dallo Spirito per diventare adulto nella fede. In questa linea, la costituzione Lumen gentium del Concilio Vaticano Il ha riletto l' intera ecclesiologia: la vita del cristiano è una vita fondata sul « mistero » e la Chiesa è in Cristo come un sacramento o segno e strumento dell' intima unione con Dio (LG 1). Per cui il punto di partenza è sempre il disegno salvifico del Padre (LG 2) di cui Cristo ne è stato il rivelatore (LG 3); e al momento del suo ritorno al Padre ha inviato lo Spirito perché lo porti a compimento. E di conseguenza la Chiesa universale si presenta come popolo adunato nell' unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo (LG 4). In tal senso il concilio sottolinea chiaramente che non esiste vita cristiana se non come vita di Chiesa fondata sul mistero: se non si parte da esso e ad esso si fa continuo riferimento non si può parlare di autentica vita cristiana. Ora, se da una parte la vita cristiana è fondata sul mistero, essa, dall' altra, fa diretto riferimento al mondo nel quale vive e in cui è soprattutto chiamata ad essere « sale della terra ». Questa è la prospettiva inaugurata dal concilio con la Gaudium et spes. Essa segna l' accantonamento delle tendenze che facevano del rapporto Chiesa-mondo un rapporto tra « società perfette », colte per lo più nel loro momento di vertice e di organizzazione (Chiesa come gerarchia e mondo come stato). Per il concilio, tale rapporto diviene una realtà esistenziale, gestita corresponsabilmente dall' intero popolo di Dio nel rispetto delle competenze che si danno al suo interno. L' obiettivo dell' incontro Chiesa-mondo è l' annuncio di Cristo, che si realizza mediante un processo di immersione sempre più profonda nella storia. In questa prospettiva diviene allora più chiaro il cammino di « santità » a cui ogni spiritualità fa diretto riferimento. Il tema della santità è centrale nei documenti conciliari (PO 12; OT 8; GS 48-49; LG 43-47; PC 6). In particolar modo, nel capitolo quinto della Lumen gentium troviamo enucleati i dati più importanti e fondamentali della santità cristiana. Essa innanzi tutto è partecipazione alla santità stessa del Cristo, attuata in perenne novità del suo Spirito (LG 39); la chiamata alla santità e perciò indistinta per tutti i credenti e coincide con la vocazione battesimale. Tutti devono tendere « alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità » (LG 40). Anche se una, la santità si esplicita in molteplici forme, secondo la diversità delle situazioni in cui vivono i battezzati (LG 41). Il cammino di santità è un cammino di carità sorretto dall' ascolto della parola di Dio (LG 42). E’ chiaro che questa nuova ottica della santità conduce ad alcune conclusioni importanti per una rinnovata spiritualità cristiana. Scrive Sabatino Majorano: « La santità cristiana è realtà profondamente teologale. [...] Di qui la priorità della grazia, della vocazione, del dono da una parte, e dall' altra, l' articolazione dell' indispensabile e generoso impegno morale dell' uomo come accettazione-risposta. La santità è la carità. Mi sembra che questo costituisca uno dei tratti ripetuto con più forza e partendo dalle più diverse angolazioni. Tutto ciò porta con sé altri dati veramente decisivi: il fatto che venga proposta una vita cristiana contrassegnata dal coraggio dell' essenziale, cioè tale che, pur valorizzando i mezzi e i vari aspetti settoriali, non perda mai di vista ciò che di tutto costituisce il nucleo. Perché colta nel suo nucleo, la santità ci si presenta di un' estrema semplicità. Non richiede quindi una particolare situazione, studiata positivamente in funzione di essa e attentamente ricercata e difesa ». Questa panoramica molto sintetica sulla spiritualità contemporanea ha messo in evidenza il suo carattere dinamico e soprattutto la sua aderenza al vissuto sociale ed ecclesiale; frutto non tanto di un compromesso con le mode dei tempi correnti, quanto piuttosto di una maggiore sensibilità al mistero, alla luce della quale vengono poi rilette e vissute le relazioni umane.

2. LA SPIRITUALITÀ MARIANA

Anche nel campo della riflessione sul posto e sul ruolo di Maria nella spiritualità contemporanea il cammino di evoluzione e di trasformazione a livello teologico è stato molto significativo e profondo. Esso ha dovuto confrontarsi con due frange estreme di pensiero: quella che ritiene la Vergine il centro della vita spirituale cristiana e quella opposta che le nega qualsiasi diritto di cittadinanza significativo all' interno dell' esperienza di fede. Questo dibattito, acuitosi soprattutto negli anni del concilio e in quelli immediatamente seguenti, ha quindi evidenziato la necessità di restituire la persona di Maria alla sua verità quale scaturisce, da un lato, dal confronto con la parola di Dio e la storia della salvezza, dall' altro, con la cultura contemporanea, che esige una presenza mariana significativa e promozionale. Il confronto con la parola di Dio fa emergere con chiarezza sia la legittimità che la necessità di un rapporto di accoglienza e anche di lode filiale da parte dei discepoli nei confronti della Madre del Signore (Lc 1,48; Gv 19,27). Questa realtà è documentabile anche nella tradizione ecclesiale, che testimonia una varietà di modi di relazioni alla Vergine, tutte legate alla progressiva evoluzione della riflessione teologica e della cultura. Sempre la parola di Dio concentra l' esperienza di fede nella comunione trinitaria che genera la fraternità umana: questa esperienza si realizza nell' adesione personale a Cristo Gesù. Afferma Stefano De Fiores: « E’ da sostenere l' orientamento attuale della spiritualità che punta sulla vita in Cristo e all' interno di questa trova l' atteggiamento da assumere nei riguardi di Maria. E’ un recupero della prospettiva degli inizi, quando la comunità apostolica scoprì Maria come implicanza del mistero di Cristo e si aprì alla lode della Madre di Gesù. [...] In tale ottica il rapporto con Maria è una conseguenza, piuttosto che una premessa, del mistero di Cristo. L' itinerario cristiano infatti parte da Cristo, centro vivo della fede e dell' annuncio, in lui incontra Maria. [...] Maria diviene una via per raggiungere non l' unione con Cristo, già preesistente, ma un suo approfondimento e una sua maggiore radicazione » La relazione spirituale con Maria deve necessariamente aprire alla radicalità della sequela di Cristo: in questo senso, la Vergine diventa « icona del mistero »" e sintesi esistenziale dell' esperienza della Chiesa. In altre parole, Maria è modello degli atteggiamenti spirituali del cristiano, modello vitale che chiede di essere interiorizzato per rendere piena la risposta alla vocazione battesimale. La spiritualità mariana è dunque una forma fondamentale di esistenza credente, implicata nel fatto di essere cristiani: non è una realtà episodica o accessoria, di fronte alla quale si possa optare anche in senso negativo (cioè di non accoglienza), ma un rapporto permanente, intimo e unificante con la Madre del Signore, animato e sostenuto dallo Spirito, che configura vitalmente la persona a Cristo e la dedica al servizio dell' unità fraterna. Si notava però come fosse anche necessario, per restituire la persona di Maria alla sua verità, il confronto con la cultura contemporanea. Questo passaggio si rivela obbligato perché la significatività della Vergine, ossia il suo essere, in Cristo, progetto salvifico per il mondo, non è una realtà esterna o accessoria alla sua persona, ma la costituisce in profondità, così come costituisce in profondità l' essenza dell' intera comunità cristiana. Il confronto con la cultura attuale non va, però, fatto prendendo come base la fattualità della vita di Maria, ma a partire dai suoi atteggiamenti profondi: è qui che la Vergine si mostra donna piena, perfettamente responsabile della sua dignità personale e delle sue decisioni, capace di rispondere alle attese antropologiche e storiche di oggi. Innanzitutto Maria è progetto di libertà. La filosofia esistenzialista e il dinamismo della secolarizzazione ci hanno permesso di considerare l' uomo come persona in grado di costruire il suo futuro da solo, senza costrizioni. Nel l' annunciazione e negli altri passi evangelici in cui si parla della Madre del Signore, è possibile individuare una costante: Dio si relaziona a Maria come a una « libertà », la cui realizzazione sta nel rispondere consapevolmente al suo pro getto mediante il dono di sé. Maria è un' incarnazione nella storia. Il Magnificat esprime la sequela della Vergine dietro il liberatore dell' umanità, Cristo; e si fa invito alla costruzione di una nuova umanità, insieme al Dio dei poveri, nell' abbattimento dei muri del potere e della discriminazione. Maria è introduzione vivente dell' antropologia di Dio. È Osserva ancora Stefano De Fiores: « Maria offre all' uomo la sua vera comprensione secondo il piano di Dio. Meglio, in Maria è svelato all' uomo il progetto perseguito da Dio lungo la storia della salvezza. [...] Oggi, anzi, si tende a vedere non soltanto Maria nella storia della salvezza, ma anche la storia della salvezza in Maria. [...] Se tutto l' Antico Testamento si riassume nella linea dell' evento dialogico, in cui all' azione e parola di Dio deve rispondere la parola e l' azione dell' uomo, Maria rappresenta il culmine temporale e assiologico di questo incontro in vista dell' incarnazione del Figlio di Dio ». Queste sono solo linee indicative, che non esauriscono affatto il campo. Aiutano, però, a comprendere come la storia sia il luogo della salvezza divina e come la sequela di Cristo in compagnia di Maria sia fermento di rinnovamento autentico in umanità. Il regno di Dio porta, infatti, al massimo, quelle potenzialità che il Signore stesso ha immesso nel cuore umano al momento della creazione: il dono di sé nell' amore totale e fedele. Insegna Paolo VI: « All' uomo contemporaneo, non di rado tormentato tra l' angoscia e la speranza, prostrato dal senso dei suoi limiti e assalito da aspirazioni senza confini, turbato nell' animo e diviso nel cuore, con la mente sospesa dall' enigma della morte, oppresso dalla solitudine mentre tende alla comunione, preda della nausea e della noia, nella beata Vergine Maria, contemplata nella sua vicenda evangelica e nella realtà che già possiede nella città di Dio, offre una visione serena e una parola rassicurante: la vittoria della speranza sull' angoscia, della comunione sulla solitudine, della pace sul turbamento, della gioia e della bellezza sul tedio e la nausea, delle prospettive eterne su quelle temporali, della vita sulla morte » (MC 57).

3. LA SPIRITUALITÀ SALETTINA

Parlare di una spiritualità radicata nell' evento de La Salette non è possibile senza tenere in conto quanto è emerso da questa panoramica sulla spiritualità in genere e manana in particolare, oltre che dei dati dell' indagine scritturistica e liturgica. La spiritualità salettina, infatti, si basa sui significati emergenti dall' evento de La Salette, che presenta una particolarità tutta propria: non è legato a una persona e alla sua singola esperienza spirituale (come ad esempio la spiritualità dei francescani con san Francesco d' Assisi o quella dei gesuiti con sant' Ignazio di Loyola). Perciò assume un carattere dinamico: essa è frutto, oltre che dell' evento in se stesso (l' apparizione), di varie storie particolari e soprattutto di varie interpretazioni che hanno avuto relazione profonda con quanto accadde il 19 settembre 1846 (cfr. i giudizi dei vescovi di Grenoble, le posizioni dei primi cappellani incaricati del servizio del santuario de La Salette, l' esperienza del nucleo iniziale dei padri salettini, l' evoluzione della vita ecclesiale e sociale...). Questa evoluzione dinamica della comprensione dell' apparizione e del suo specifico cammino spirituale ha formato una vera e propria «tradizione» di spiritualità. Nata, come gia ricordato, nella seconda metà dell' Ottocento francese ed europeo, questa tradizione ha attinto il suo nutrimento e le sue motivazioni fondamentali dal grande patrimonio della spiritualità vittimale, allora assai diffusa e sviluppata. Questo approccio al Cristo e al vangelo leggeva l' incarnazione e l' evento della croce in un ottica prevalentemente giuridica: l' esistenza di Gesù aveva come suo scopo fondamentale la riparazione dell' onore divino leso dal peccato e quindi la soddisfazione della giustizia divina mediante l' accettazione vicaria della pena prevista per il peccato stesso, cioè la morte. In altre parole, il Cristo è nato per subire, al posto dell' uomo, la giusta collera di Dio sull' umanità. Scrive Marcello Bordoni: « Un esempio lo abbiamo in certe scuole di spiritualità, come quella oratoriana, e nelle teologie della redenzione che si sono andate evolvendo a partire dal basso Medioevo e nel periodo controversistico postridentino fino ai nostri giorni. Sotto l' influsso di categorie propriamente estranee all' originaria tradizione derivante dalle fonti cristiane, la soteriologia incentrata nell' evento della croce viene qui interpretata come agire riparatorio nel senso di compensazione offerta per l' onore divino leso dal peccato e per placare il volto irato di Dio rendendolo, così, benevolo verso di noi. E tutto ciò attraverso un transfert liberatorio, per cui l' umanità peccatrice tenderebbe a sgravarsi delle colpe gettandole sulla vittima designata da Dio, che verrebbe uccisa al nostro posto (sostituzione penale) per soddisfare la sete divina di giustizia (vendicativa?) ». Un simile linguaggio, dominato da categorie di tipo giuridico-penale, non può però trovare consensi sia nella cultura che nella teologia contemporanea: il pensiero che Dio possa mandare suo Figlio a morire per soddisfare la sua sete di vendetta porta con sé la rivelazione di un Essere terrificante invece che misericordioso. E questo è quanto di più estraneo al vangelo possa esistere. Eppure, per oltre cento anni, l' apparizione de La Salette e il suo messaggio spirituale sono stati accostati e letti all' interno di quest' ottica, soprattutto la frase: « Se il mio popolo non vuole sottomettersi, sono costretta a lasciare libero il braccio di mio Figlio. Esso è così forte e così pesante che non posso più sostenerlo ». Ciò portava ad insistere molto sull' aspetto espiatorio e penitenziale della vita: la stessa persona di Maria, nell' apparizione, veniva letta come «vittima di espiazione», venuta sulla terra a chiamare persone desiderose di unirsi a lei per soddisfare, insieme al Crocifisso, la giustizia divina. Scrive, a questo proposito, Andrea Tessarolo: « Non di rado, specialmente nel corso del secolo XIX, venivano indette speciali "pratiche di espiazione" per gravi scandali pubblici, anche di carattere locale. Vi contribuirono: il messaggio de La Salette, l' opera di eminenti personalità e il succedersi di gravi sconvolgimenti sociali. In questo clima è stato costruito il tempio votivo nazionale di Montmartre, offerto al Cuore di Cristo da una Francia poenitens et devota, e sono sorte, in vari paesi, congregazioni religiose, specialmente femminili, per portare le anime alla pratica di una spiritualità vittimale ed espiatrice. Le anime che, docili alla voce della grazia, hanno abbracciato questa vita, compiono frequenti atti di penitenza in spirito di espiazione che offrono in unione col sacrificio di Cristo, per placare la giustizia divina e impetrare la conversione dei peccatori, considerando come propri anche i peccati altrui ». Perciò vorremmo ora riportare brevemente dei testi che provengono dalla Regola di vita che hanno segnato il cammino di autocomprensione dei religiosi di Nostra Signora de La Salette, e che esemplificano quanto abbiamo finora detto. La Regola di vita altro non è, infatti, se non le norme di vita che guidano i religiosi nella loro vocazione e missione specifiche a servizio della Chiesa. In esse è probabile rilevare come l' identità (ossia vocazione, spiritualità e missione) della congregazione sia stata legata sin dalle sue origini alla comprensione teologica dell' evento de La Salette: - « I Missionari sono come i messaggeri e gli aspotoli di Nostra Signora de La Salette, e debbono penetrare nello spirito dell' apparizione in maniera così profonda da comunicarlo a tutti, sia con il loro esempio che con il loro ministero. Questo spirito verrà attinto dallo studio e dalla meditazione di tutti i dettagli dell' apparizione ». - « I Missionari di Nostra Signora de La Salette debbono ritenersi i messaggeri della Regina del cielo, incaricati di diffondere e far conoscere agli uomini, più con il loro esempio che con le loro parole, i divini avvertimenti che lei stessa si è degnata di portare sulla terra. [...] Essi si svilupperanno secondo le indicazioni della Provvidenza ». - « La Vergine che chiama a sé, in lacrime, i due piccoli pastori e che parla loro con toccante bontà, porterà i Missionari a consacrarsi generosamente e a lavorare con uno zelo pienamente apostolico ». - « La congregazione ha come fine speciale, oltre alla santificazione dei suoi membri, di completare la grande missione che la santa Vergine ha più volte raccomandato nella sua apparizione sulla santa montagna, ossia di far conoscere a tutto il suo popolo i divini insegnamenti che lei ha portato dal cielo ». Compassione, riparazione, espiazione e vittimalità divennero le « parole chiave » dell' interpretazione dell' apparizione e della spiritualità salettina: - « Lo spirito particolare di questa comunità (dei Missionari), attinto dalle parole e dagli atteggiamenti della Vergine santa nella sua apparizione sulla venerata montagna, dovrà essere uno spirito di preghiera, di zelo e di espiazione. (...) Soprattutto essi praticheranno lo spirito di mortificazione e di rinuncia, avendo cura di preservarsi da ogni sensualità, da ogni ricerca e attaccamento alla propria volontà e alle proprie idee. [...] Vivendo costantemente il rinnegamento di se stessi, che è l' antidoto contro ogni peccato, i Missionari di Nostra Signora de La Salette saranno realmente vittime di espiazione, in grado di implorare efficacemente ogni giorno, insieme a Maria, grazia e misericordia per i poveri peccatori ». - « La santissima Vergine, seduta sulla pietra, il volto tra le mani, in pianto, con il crocifisso e gli strumenti della passione sul cuore, ispirerà loro un amore ardente di Dio, una profonda e inconsolabile sofferenza per tutto ciò che lo offende, una tenera e viva compassione per i poveri peccatori, e un ardente desiderio di soddisfare (la divina giustizia) a loro profitto con la preghiera e la penitenza ». Questa linea di spiritualità vittimale e riparatoria trova la sua maggiore e profonda espressione in Sylvain-Marie Giraud, che fu superiore generale della congregazione dal 1865 al 1876. Ne riportiamo un testo, da lui redatto a titolo privato in vista del capitolo generale del 1876: « La congregazione dei religiosi di Nostra Signora de La Salette trova la sua vocazione nel vivere lo spirito dell' apparizione della Madre di Dio sulla montagna de La Salette. [...] Questo spirito è quello di vittima, in tutta la sua ampiezza. (...) E’ principalmente uno spirito di espiazione in favore dei poveri peccatori. E tutto questo nella più intima unione con nostro Signore Gesù Cristo, vera e unica Vittima del Padre, e con Maria, nostro perfetto modello nella sua misericordiosa apparizione. Il religioso dell' apparizione è un' altra Maria, vittima con Gesù e vittima del Cuore di Gesù, che vive un generoso e ardente desiderio di realizzare tutte le finalità della sua apparizione, per la gloria della santissima Trinità e la salvezza delle anime ». Questa lettura dell' apparizione e del suo messaggio non deve assolutamente meravigliare: in quanto fatto storico, esso si inscrive in una determinata cultura e riceve, da quest' ultima, gli strumenti atti a comprenderlo. Però i concetti di riparazione, compassione, mediazione, espiazione, termini che hanno segnato la comprensione dell' apparizione, non possono essere liquidati come se non avessero avuto mai nessun significato per l' esperienza cristiana. Anzi, c' è semmai da dire che essi sono concetti essenziali nella tradizione cristiana e soprattutto nel vissuto stesso dell' esperienza di fede. Ecco perché è importante acculturare tali concetti nell' esperienza di oggi; non solo, ma è anche necessario inquadrarli in un contesto teologico più ampio e soprattutto più coerente con la globalità del messaggio e della spiritualità cristiana. Questi termini sono veicoli di significati profondi, e quindi possono (e devono) assumere una valenza particolare per il credente di oggi nel suo porsi davanti a Dio e agli uomini. Bisogna chiarire allora lo sfondo interpretativo sul quale essi di dispiegano e trovano la loro più grande ricchezza di significato. Un tale orizzonte, in ultima analisi, è costituito dalle parole e dai gesti di Gesù stesso, trasmessi dalla comunità ecclesiale: solo in essi è possibile cogliere l' intenzione di fondo che ha guidato l' esistenza terrena del Signore. Ebbene, essi rivelano una grande novità nel modo di essere e nel modo di agire. Ogni uomo, resta legato all' amore di se stesso, ossia è centrato su di sé: ha bisogno di essere compreso, accettato, amato. Senza questa esperienza egli non si può aprire agli altri e al mondo, e di fatto la sua relazionalità di sviluppa all' interno di questo spazio. In altre parole, egli non si può donare agli altri in maniera totale, cioè dimenticando se stesso. Gesù invece, soprattutto nella passione che rappresenta il culmine della sua esistenza, vive un livello di dedizione (pro-esistenza, cioè vivere a favore di qualcuno) capace di dimenticare se stesso: egli non è centrato su se stesso, ma sugli altri. Questa possibilità nuova di essere uomo deriva dalla sua relazione con Dio Padre: è il dono di Dio Padre che la suscita, grazie all' azione dello Spirito Santo. Ciò vuol dire che Gesù può donarsi totalmente agli altri, senza distinzioni, fino alla morte perché, nello Spirito, è ricolmo dell' amore del Padre. La ragione ultima della dedizione di Gesù, che arriva fino al sacrificio della croce, risiede nella sua relazione trinitaria, e ne diventa sacramento. Il momento sacrificale della croce, inflitta a Gesù dalla malvagità umana, rivela in realtà, proprio nella trafittura del colpo di lancia, quell' apertura del cuore umano che è determinata dall' irruzione dell' amore trinitario. Il Crocifisso è dunque il sacramento di questa carità, e non il segno di una soddisfazione dovuta a una richiesta vendicatoria. Con Marcello Bordoni, si può dire che nella prospettiva salvifica dell' amore trinitario, « non solo l' uomo è redento dal dolore e dalla morte, ma è redento "nel dolore" e nell' abisso" della sua stessa umana derelizione, che vengono liberate dal predominio del significato penalistico e attivamente assunte nella libertà dell' uomo redento come manifestazione di amore per Iddio e per gli uomini. Nel momento in cui l' amore trinitario fa della sofferenza dell' uomo la sua sofferenza esso risolve questo dramma umano facendone un momento della sua vita di amore ». Mediazione, riparazione, compassione vanno dunque riletti in quest' orizzonte salvifico. In un mondo che sperimenta quotidianamente la disumanizzazione, l’ingiustizia, la solitudine e in genere il misconoscimento della dignità umana, va riscoperto il senso e l' esperienza della sofferenza di Dio. Di fatto, il presupposto della vocazione riparatrice è proprio quello di un Dio capace di soffrire. In genere si è disposti ad attribuire la sofferenza solo al Crocifisso, ma ciò è riduttivo ed improprio; esiste, nella croce, un aspetto trinitario che la teologia contemporanea chiama appunto il dolore di Dio. È il mistero di un Dio che non ha paura di rivelarsi debole e impotente, dominato dall' amore che porta a subire l' offesa della prepotenza umana, anziché reagirvi; è il mistero di un Dio che fa scandalo. La tradizione ebraica, commentando e attualizzando la parola della Scrittura riguardante la stipulazione dell' alleanza tra il Signore e il popolo di Israele (Es 19,1-8), si era già decisamente orientata in questa direzione. Nel grande discorso introduttivo si legge. « Mosè salì verso Dio e il Signore lo chiamò dal monte, dicendo: "Questo dirai alla casa di Giacobbe e annuncerai agli Israeliti: Voi stessi avete visto ciò che io ho fatto all' Egitto e come ho sollevato voi su ali di aquile e vi ho fatti venire fino a me » (Es 19,3-4). Commenta Alberto Mello: « Che cosa significa "portare su ali di aquile"? Gli esegeti moderni tradurrebbero, forse, con "portare in un baleno", ma gli antichi scavano di più nella metafora. Cominciamo dalla Mekhilta [ossia un noto commento giudaico al libro dell' Esodo]: "In che cosa si distingue l' aquila da tutti gli altri uccelli? Nel fatto che tutti gli uccelli tengono i loro piccoli tra le zampe, perché temono che un altro uccello possa volare più in alto [lett. ' sul loro dorso' ]. Ma l' aquila teme soltanto l' uomo, che possa scagliarle una freccia, e ritiene preferibile che la freccia entri in lei piuttosto che nei suoi figli" » (Bahodesh). L' aquila è l' uccello che vola più in alto di tutti, quindi non ha da temere altri uccelli rapaci che possano volare più in alto di lei. L' unico pericolo dal quale deve guardarsi viene dal basso. Rashi [ossia il rabbino Shelomoh Jizhaqi di Troyes in Francia, 1040-1105] riprende questa interpretazione quasi alla lettera, ma aggiunge, attualizzando il comportamento dell' aquila in quello divino: « Dio disse: Anch' io faccio così (come l' aquila). E l' angelo di Dio parti... e venne tra l' accampamento egiziano e quello di Israele (Es 14,19-20). Gli egiziani scagliavano frecce e pietre con balestre, e la nube le riceveva ». Le riceveva Dio, per risparmiare i suoi figli! Dalla metafora dell' aquila si giunge pertanto all' affermazione teologica di un Dio che soffre a causa dei suoi figli e al posto loro, come spiega la Mekhilta poco prima, interpretando Is 63,9: « In ogni loro angustia egli [Dio] fu angustiato ». Ciò vuol dire, in altri termini, che ogni azione di protezione o di liberazione di Israele comporta una sofferenza divina: è Dio che ne paga il prezzo, come l' aquila che prende le frecce su di sé, facendo scudo ai suoi piccoli. [...] Una semplice metafora, che probabilmente doveva significare la facilità e la rapidità del viaggio attraverso il deserto, diventa invece un locus theologicus della comunione che si è stabilita tra Dio e il suo popolo: una comunione che va fino al sangue, fino al dono della vita dell' uno per gli altri, la comunione di un padre o di una madre verso i suoi figli ». Giovanni Paolo Il, nell' enciclica Dominum et vivificantem, del 18 maggio 1986, che tratta della persona dello Spirito Santo e della sua missione nel mondo, afferma: «Nell' Antico Testamento più volte si parla del "fuoco dal cielo", che bruciava le oblazioni presentate dagli uomini. Per analogia si può dire che lo Spirito Santo è il "fuoco dal cielo", che opera nel profondo del mistero della croce. Provenendo dal Padre, egli indirizza verso il Padre il sacrificio del Figlio, introducendolo nella divina realtà della comunione trinitaria. Se il peccato ha generato la sofferenza, ora il dolore di Dio in Cristo crocifisso acquista per mezzo dello Spirito Santo la sua piena espressione umana. Si ha così un paradossale mistero d' amore: in Cristo soffre un Dio rifiutato dalla propria creatura: "Non credono in me!"; ma, nello stesso tempo, dal profondo di questa sofferenza - e, indirettamente, dal profondo dello stesso peccato "di non aver creduto" - lo Spirito trae una nuova misura del dono fatto all' uomo e alla creazione fin dall' inizio. Nel profondo del mistero della croce agisce l' amore, che riporta nuovamente l' uomo a partecipare alla vita che è Dio stesso» (DV 41). Qualcuno potrebbe obiettare che attribuire dolore a Dio significa fare dell' inedito antropomorfismo. Ma la vera questione è un' altra, e riguarda non solo Dio, ma ancor più il popolo di Dio. Scrive a questo proposito Enzo Franchini: « Lo scandalo non sta nell' attribuire un cuore a Dio. Sta in una rappresentazione impropria che, forzandone magari i tratti, si potrebbe delineare così: l' Amore non è amato, dunque stringiamoci noi, i pochi buoni, attorno a lui, perché non veda i tanti cattivi che lo insultano. In quanto ai cattivi, non resterebbe che deprecarli, abbandonarli alloro destino pravo. [Ciò] suppone appunto che si possa noi dare a Dio quello che gli altri gli negano, quasi dispensando gli altri dal loro contributo, visto che, in fin dei conti, il conguaglio viene comunque versato. Terribili queste supposte equazioni contabili in vista di riequilibrare una sorta di astratta bilancia dei pagamenti ». Dio soffre non come persona lesa, nella sua maestà divina, dal peccato umano. Il crocifisso dimostra che Dio soffre perché ama l' uomo e si fa solidale con lui; Dio soffre perché l' uomo, peccando, si perde ed egli non vuole perderlo. Partecipare all' opera di mediazione e riparazione significa, allora, non allontanarsi dalla realtà, lamentandone il disordine e invitando i « giusti » a non prendervi parte; ma farsi solidale con l' uomo e il mondo. Tale è l' ottica in cui Maria si pone a La Salette: « Se il raccolto si guasta, la colpa è vostra: [...] Avete mai visto del grano guasto, figli miei? No, Signora, rispondono. Ma tu, figlio mio, lo devi aver visto una volta con tuo padre, verso la terra di Coin. Il padrone del campo disse a tuo padre di andare a vedere il suo grano guasto. Vi andaste tutti e due, prendeste in mano due o tre spighe, le stropicciaste e tutto cadde in polvere». È molto significativo quanto scrive il preposito generale della Compagnia di Gesù, Hans Peter Kolvenbach: « In questo periodo di odio e di violenza, di ingiustizia e discriminazione, la riparazione dovuta al Signore trova la sua autenticità nell' attenzione al povero, nella promozione della giustizia, nell' amore dei più piccoli, nel rispetto della vita ». Maria, a La Salette, si mostra vera Madre della compassione e della riparazione. Ella, pur essendo « del cielo», avvolta della luminosità di Dio, è spinta a condividere la situazione dell' uomo contemporaneo e piange. «Gloria e tristezza caratterizzano una presenza che, pur appartenendo alla sfera di Dio, esprime profonda partecipazione e un grande coinvolgimento emotivo nei confronti della vicenda umana.[...] Affiora, lungo tutto il messaggio, uno stile che dice incisivamente come la missione nasca da un' attenzione che trafigge il cuore ». La solidarietà che si esprime nella compassione e nella riparazione non è, quindi, una benevola attenzione del giusto nei confronti del peccatore; a La Salette Maria arriva a dire: « Da quanto tempo soffro con voi! ». La solidarietà compassionevole è confessione delle colpe che si trasforma in intercessione; la Vergine, infatti, continua: « Se voglio che mio Figlio non vi abbandoni, mi è stato affidato il compito di pregarlo continuamente per voi ». L' intercessione è suscitata dall' Amore trinitario e chiama gli uomini, nessuno escluso, a vivere la vita divina, per farne dei credenti: chi intercede diventa anima di chi non ha anima, diventa voce di chi non ha voce, perché chi non ha anima né voce ritrovi dentro di sé la capacità di ritornare a Dio. E quanto Maria fa a La Salette: ella trasforma il vissuto di morte sperimentato dalla gente del luogo e che si traduce in rivolta contro Dio (« Coloro che guidano i carri non sanno imprecare senza il nome di mio Figlio. [...Quando] trovavate [patate] guaste, bestemmiavate il nome di mio Figlio. [...] D' inverno, quando non sanno che fare, vanno a messa solo per burlarsi della religione. In Quaresima vanno alla macelleria come i cani »), in momento favorevole di riconciliazione (« Se si convertono, le pietre e le rocce si tramuteranno in mucchi di grano e le patate nasceranno da sole nei campi. [...] Gli altri faranno penitenza con la carestia. [...] Al ritorno, quando eravate a mezz' ora da Corps, tuo padre ti diede un pezzo di pane dicendoti: "Prendi, figlio mio, mangia ancora del pane quest' anno" »). Non può dunque esistere intercessione senza missione per rinnovare il genere umano e avvicinarlo alla vita trinitaria, in vista della costruzione della civiltà dell' amore. Non può esistere un' offerta di sé che non abbia come obiettivo la vita del mondo. Maria, infatti, dice a La Salette: « Se il mio popolo non vuole sottomettersi, sono costretta a lasciare libero il braccio di mio Figlio. Esso è così forte e così pesante che non posso più sostenerlo. (...) Per quanto pregherete e farete, mai potrete compensare la pena che mi sono presa per voi ». Prosegue Enzo Franchini: «La solidarietà con i maledetti, assunta per avere in noi i medesimi sentimenti che furono in Gesù Cristo, obbliga ad una organizzazione della vita spirituale molto più etero-centrata che non motivata dalla propria salvezza personale. [...] La riparazione è sacerdotalità, esige dunque una dedizione interiore fattiva al servizio degli altri, fosse pure con la sola preghiera; il che comporta una caratterizzazione abbastanza netta, ad esempio, rispetto all' ascetismo monastico, visto che il monastero è nato soprattutto come scuola (od officina) dove imparare il dominio di sé per il servizio di Dio. Un' altra volta, la riparazione è meno incentrata sulla crescita individuale, per essere invece rappresentata dagli altri, a nome dei quali esercitare una specie di avvocatura, un ministero quasi di paracliti. [...] Si serve l' uomo perché l' uomo è amato da Dio e perché la sua conversione è la festa del Padre». Maria chiude la sua apparizione dicendo: « Ebbene, figli miei, fatelo conoscere a tutto il mio popolo. Andiamo, figli miei, fatelo conoscere a tutto il mio popolo ». E’ la speranza che nasce dalla certezza che il servizio della riparazione è forte della potenza di Dio, e pertanto non lavora né costruisce invano. La grazia de La Salette è, dunque, la riscoperta della vocazione battesimale ad essere, in Cristo crocifisso, popolo riconciliato con Dio che si fa, in compagnia di Maria, germe vivente di unità fraterna e di solidarietà reciproca con gli uomini e l' intero creato, letto nella sua più profonda valenza simbolica di « regno di Dio », luogo della vita e della benedizione definitiva del Benedetto per eccellenza, Gesù, figlio di Abramo, figlio di Adamo, figlio di Dio.

4. LA « REGOLA DI VITA » DEI MISSIONARI DI NOSTRA SIGNORA DE LA SALETTE

Il cammino che abbiamo fin qui percorso permette di affermare con chiarezza che la spiritualità salettina affonda le sue radici nell' incarnazione, cioè nella persona e nella prassi storica di Gesù, e nel pellegrinaggio di fede di Maria, perfetta discepola, che lo segue sulla via della salvezza. In altre parole, la grazia de La Salette si inserisce nell' unica spiritualità cristiana. Questa, infatti, è, come abbiamo avuto modo di capire, la relazione vissuta con il Cristo all' interno della storia, della cultura e della comunità ecclesiale, nella testimonianza dei suoi valori e dei suoi insegnamenti, assunti come fonte dinamica dello sviluppo personale e comunitario. L' evento de La Salette, in quanto approvato dalla Chiesa, chiama il battezzato (e il consacrato) a vivere questa relazione con Cristo attraverso alcune « piste » preferenziali, che ne costituiscono come le chiavi di accesso e gli snodi fondamentali. Essi sono: - la solidarietà illimitata con ogni uomo e ogni donna e l' inserzione attiva nella storia; - la sacramentalità della propria esistenza, in quanto reale « estensione » e manifestazione temporale del mistero dell' incarnazione, perché « l' umanità dell' uomo è il luogo in cui Dio si fa presente nella nostra esistenza quotidiana, come il Padre buono e accogliente, che salva e riempie di vita »; - la vocazione alla mediazione della grazia riconciliatrice nell' esercizio sacerdotale (battesimale e ordinato) della liturgia e dell' apostolato per vivere e testimoniare, nell' offerta di sé, il primato di Dio e della sua azione salvifica nel mondo e per il mondo; - l' essere, con la vita e la parola, denuncia profetica, «voce critica», rib fatto carne, di qualunque tipo di infedeltà all' alleanza perpetrato sia all' interno del popolo di Dio che al suo esterno, in spirito di solidarietà fraterna, per testimoniare la riconciliazione e la speranza; - con la stessa dedizione che Maria visse e alimentò nei confronti del Signore e insieme a lei, maternamente vicina al popolo di Dio (VMFIS 36). È possibile ritrovare questi elementi nella Regola di vita dei Missionari di Nostra Signora de La Salette. Essa è frutto del rinnovamento spirituale e culturale della vita religiosa promosso dal Concilio Vaticano Il, ed esprime il carisma dell' istituto. Alla luce dell' apparizione la congregazione vuole vivere: - la solidarietà con gli uomini e l' attiva inserzione nella loro storia. Leggiamo infatti: « Animati dallo Spirito Santo che ha spinto il Figlio di Dio a vivere la nostra condizione umana e a morire sulla croce per riconciliare il mondo al Padre, vogliamo essere, alla luce dell' apparizione di Nostra Signora de La Salette, i servitori devoti del Cristo e della Chiesa per la realizzazione del mistero della riconciliazione. [...] Le nostre comunità devono essere segni vivi dell' amore di Cristo. Saranno aperte e accoglienti verso tutti. La nostra ospitalità sarà la testimonianza del desiderio e della gioia di condividere la nostra vita e di essere a servizio di tutti. [...] Cristo è venuto a portare il lieto messaggio della liberazione a tutti gli uomini; ha riservato una particolare preferenza per i poveri e gli oppressi. Maria, a La Salette, si è servita dei piccoli e degli umili per far giungere il suo messaggio a tutto il suo popolo. Anche noi, nelle diverse attività apostoliche in mezzo al popolo di Dio, andremo di preferenza verso i più abbandonati di questo mondo e verso coloro che sono lontani da Dio e dalla Chiesa » (RdV, prima parte, nn. 4.21.25); - la condivisione battesimale della natura sacramentale della Chiesa: « In seno al popolo di Dio, noi, Missionari di Nostra Signora de La Salette, formiamo una congregazione religiosa e apostolica, dedita al ministero della riconciliazione. [...] Incorporati alla Chiesa dal nostro battesimo, partecipiamo alla sua missione. Mediante la professione dei voti pubblici di povertà, di castità e di obbedienza, ci consacriamo, con nuovo titolo, a questa missione e ci impegniamo a vivere in una comunità religiosa che sia segno del regno di Dio. [...] La nostra Congregazione è chiamata a essere un segno e uno strumento dell' opera della riconciliazione realizzata da Cristo e alla quale Maria è tanto strettamente associata, come ella stessa ci ricorda nella sua apparizione » (RdV, prima parte, nn. 1.3.22); - la vocazione alla mediazione della grazia riconciliatrice nella totale e sacerdotale dedizione di sé all' apostolato e alla liturgia per testimoniare nel mondo il « ministero della riconciliazione ». La Regola dice: « Il Cristo è la regola della nostra vita. [...] Tutti, padri e fratelli, secondo i diversi ministeri e attività a cui siamo chiamati, partecipiamo alla missione di riconciliazione che la Chiesa ha affidato alla congregazione. [...] Ci adoperiamo a mettere in luce i valori profondamente evangelici di preghiera, penitenza e zelo contenuti nel messaggio di Nostra Signora de La Salette, che ci chiama alla conversione. Noi per primi ci sforziamo di vivere questi valori affinché, sia con la testimonianza della vita che con la parola, portiamo gli altri ad aprirsi al vangelo che è nostra missione far conoscere a tutti. [...] Come risposta alla chiamata di Dio e per realizzare la preghiera di Gesù: «che siano una cosa sola... affinché il mondo creda», ci impegniamo a vivere insieme la nostra vocazione all' apostolato della riconciliazione. Uniti dalla medesima fede, dalla stessa speranza e animati dallo stesso Spirito, noi formiamo un cuor solo e un' anima sola in un' unica famiglia religiosa. Uniti dal battesimo, dalla professione dei consigli evangelici, dalla devozione a Maria, riconciliatrice dei peccatori, e dalla missione della nostra congregazione, è come comunità che noi siamo per il mondo i testimoni della presenza di Dio tra di noi e della forza del vangelo nel riunire in comunione fraterna uomini di ogni lingua, razza e nazione. [...] La croce de La Salette è il segno distintivo della nostra comunione di vita e di spirito, e della nostra missione apostolica» (RdV, prima parte, nn. 7.27.6.14-15; secondaparte, n. 6b); - l' essere, con la vita e la parola, denuncia profetica, « voce critica», rib fatto carne, di qualunque tipo d' infedeltà all' alleanza perpetrato sia all' interno del popolo di Dio che al suo esterno, in spirito di solidarietà fraterna, per testimoniare la riconciliazione e la speranza: « Ispirandoci al messaggio di Nostra Signora de La Salette ci applichiamo: -- alla riconciliazione dei peccatori e alla liberazione di tutti nella sottomissione alla volontà del Padre; -- al risveglio e all' approfondimento della fede nel popolo di Dio, affinché ogni realtà umana sia illuminata dalla luce del vangelo; -- all' annuncio della "buona novella" dove non è ancora conosciuta; -- alla promozione di una mutua comprensione e avvicinamento tra le varie religioni, nella carità e verità; -- alla lotta contro i mali che oggi compromettono il disegno salvifico di Dio e la dignità dell' uomo » (RdV, prima parte, n. 23); - con la stessa dedizione che Maria visse e alimentò nei confronti del Signore e insieme a lei, maternamente vicina nel pellegrinaggio della fede: « Fedeli alle nostre origini, professiamo un profondo amore a Maria, Madre di Cristo e della Chiesa. Con il nostro apostolato, seguiamo l' esempio della serva del Signore che fu costituita riconciliatrice in modo particolare ai piedi della croce. [...] E’ sull' esempio di Maria, "la cui vita è una regola di condotta per tutti", e la cui costante intercessione sostiene i nostri sforzi, che noi vogliamo vivere la nostra consacrazione religiosa. Impegnati a rispondere al richiamo che di continuo ci ripete con la sua apparizione, ci sforziamo di dedicarci interamente, come lei, la serva del Signore, alla persona e all' opera di suo Figlio » (RdV, prima parte, nn. 5.13). Infatti, il missionario della Vergine piangente, sia che evangelizzi le popolazioni in cui la Chiesa o è sconosciuta o non è radicata, sia che approfondisca la fede nel popolo di Dio (con la predicazione di ritiri spirituali e di missioni, con l' animazione dei centri di rinnovamento e dei gruppi di preghiera e di riflessione sulla vocazione cristiana, con l' aiuto ai movimenti che favoriscono la promozione umana e l' impegno apostolico, con il servizio ai santuari [specialmente quello de La Salette], con l' assunzione di parrocchie e cappellanie, con la formazione dei giovani, con la cooperazione nell' opera per l' unione delle Chiese), ritiene suo dovere, come apostolo della riconciliazione, di entrare più profondamente all' interno del suo mistero attraverso la preghiera, la meditazione, lo studio e il ministero (RdV, seconda parte, nn. 1.8.38). In questo dinamismo di apertura vitale alla riconciliazione, egli è in grado di approfondire la comprensione del mistero dell' alleanza tra Dio e gli uomini, della sua rottura causata dal peccato e delle conseguenze che ne derivano nella vita delle persone e delle società. Da questa sorgente egli trova la spinta alla solidarietà, per eliminare le cause profonde dell' alienazione dell' uomo e della sua separazione da Dio e dai fratelli (cioè la perdita del senso di Dio e della dignità della persona umana, la frattura tra la vita di fede e l' impegno temporale, l' odio, la violenza, le ingiustizie); per dedicarsi al ministero del sacramento della riconciliazione, sforzandosi di farne un incontro vivo con il Cristo che guarisce e salva l' uomo; per avvicinare, specialmente nelle parrocchie affidate all' istituto, soprattutto coloro che hanno abbandonato la Chiesa e ricondurli ad una partecipazione attiva alla vita della comunità ecclesiale (RdV, seconda parte, n. 39). Per cui si impegnerà ad essere disponibile verso tutte le persone in quanto tutte sono oggetto dell' amore di Dio; ad apprezzare la loro cultura e la loro identità, sforzandosi di inserirsi nei gruppi umani ai quali si rivolge, nell' intento di scoprirne tutte le ricchezze e tutti i valori per poi offrirli a Cristo unitamente a loro; a considerare sempre con spirito aperto i loro problemi e le loro difficoltà per contribuire a risolverli alla luce del messaggio evangelico (RdV, seconda parte, n. 40). Questa panoramica di testi non vuole assolutamente essere un' autocelebrazione, ma condivisione di una grande ricchezza: pur non impegnando la fede cattolica di tutta la Chiesa (un' apparizione non ha il valore di un dogma), essa vuole portare il popolo di Dio a riscoprire la grandezza della sua vocazione per la vita del mondo, indicando alcuni atteggiamenti fondamentali dell' esistenza credente. La Regola di vita afferma: «I Missionari lavorano sempre in stretta collaborazione con i laici, li ascoltano, condividono con loro le responsabilità. [...] Inoltre si prodigheranno per promuovere un' intensa vita ecclesiale caratterizzata da [...] un' attiva partecipazione dei laici alla vita della comunità [...] attraverso i vari consigli, ministeri e altri impegni » (RdV, seconda parte, nn. 52.45). In fondo, la meta del lungo cammino che è stato fin qui percorso altro non è se non l' approfondimento vitale della comunione che lega Cristo all' uomo e l' uomo a Cristo. Maria è colei che cerca e favorisce maternamente questa unione, e che a La Salette ricorda alla Chiesa di sempre la sua fondamentale vocazione di popolo sacerdotale offerto per la salvezza del mondo: « Ebbene, figli miei, fatelo conoscere a tutto il mio popolo. Andiamo, figli miei, fatelo conoscere a tutto il mio popolo ».

Conclusione

Il linguaggio de La Salette, pur avendo quella forte valenza simbolica che si è cercato di far risaltare, può sembrare antiquato o addirittura « offensivo » per l' uomo contemporaneo. Che senso ha, infatti, parlare di « catene » del peccato, mancanza di patate e di grano, di morte, della disperazione che viene dal non avere un futuro... ad un uomo che sempre più si sperimenta come padrone e signore indiscusso della vita e della morte? Eppure, anche in campo laico, non mancano le voci profetiche che usano lo stesso linguaggio. Si pensi ad esempio al grido della cantautrice nera americana Tracy Champman: « You in your francy material world don' t see the links of chain, binding, blood »: (« Tu, nel tuo elegante mondo materiale, non vedi gli anelli delle catene che avvolgono sangue »). L' uomo d' oggi, abbacinato dal suo orgoglio e dal suo egoismo, non vede le catene di sofferenza e d' ingiustizia che avviluppano il mondo nella sua interezza: è la denuncia aperta di Maria a La Salette: « Voi non ci fate caso ». Ecco allora che il grido profetico diviene quasi una necessità. Abbiamo bisogno di essere scossi per aprire gli occhi di fronte alle mille povertà del nostro universo, ma soprattutto per comprendere che l' indigenza del mondo postindustriale è difficile da decifrare, perché spesso riveste un carattere collettivo e allargato ad ambiti relazionali, civili, culturali e spirituali. La lista dei paesi più poveri del mondo comprende attualmente ventun nazioni dell' Africa, otto dell' Asia, una del Pacifico e una nei Caraibi. La maggioranza degli abitanti di queste nazioni vive su di un' agricoltura che garantisce appena la sussistenza. Il loro reddito pro capite nazionale annuo è inferiore a 100 dollari Usa (1968). Il 20 per cento della popolazione soffre la fame. La vita media è inferiore ai cinquant' anni, l' analfabetismo supera il 60-70 per cento. A ciò si aggiungono le statistiche fornite dall' Organizzazione mondiale della Sanità che indicano in un 10 per cento della popolazione mondiale le persone che soffrono a causa di qualche forma d' invalidità. Si calcola che gli handicappati nel mondo siano circa mezzo miliardo, e che al primo posto dei fattori invalidanti si trova la malnutrizione, cioè 100 milioni di persone sono handicappate a causa della fame cronica. Scrive Paolo Cosci: « Alla base di tutte queste minorazioni non c' è il destino o il caso, tanto è vero che esse non colpiscono indistintamente le diverse classi sociali o i diversi paesi del globo. Non è certamente per caso, ad esempio, che le forme di invalidità multipla crescono in misura più proporzionale nei ceti più poveri di una popolazione, rispetto ai gruppi più socialmente ed economicamente emergenti ». In lacrime, Maria a La Salette dice: « Sopraggiungerà una grande carestia. Prima di essa i bambini al di sotto dei setti anni saranno colpiti da tremito e morranno tra le braccia di coloro che li terranno ». La sofferenza e la morte portano sempre con sé lo scandalo, soprattutto quando colpiscono le persone indifese e deboli, ossia gli « innocenti ». Di primo acchito viene spontaneo puntare i riflettori su Dio, principio e causa di tutto: perché Dio permette ciò? Ma forse la domanda ha bisogno di una virata a centottanta gradi. Perché l' uomo non costruisce una società più equa? Perché i beni affidati a tutti gli uomini non vengono distribuiti con maggiore perequazione? Non è necessario andare così lontano, in India o in Africa, per venire a contatto con situazioni d' indigenza infantile. L' Istat nel suo rapporto annuale del 1994 ha rilevato che in Italia, nel Mezzogiorno, la povertà riguarda un numero rilevante di giovanissimi, quasi un povero su cinque ha meno di quattordici anni. Il fenomeno della presenza di bambini in condizione di povertà assume toni paurosi. Infatti, in alcune aree del Mezzogiorno il 21,5 per cento dei bambini fino a cinque anni e il 24,4 per cento dei bambini dai sei ai tredici anni vivono in condizioni di estrema povertà. Non solo, ma mentre in Lombardia il 77 per cento dei bambini ha fatto almeno una vacanza in un anno, in alcune regione del sud, ad esempio Calabria e Sicilia, tale percentuale arriva solo al 25 per cento. Di fronte a tutto ciò nasce una domanda: chi può salvare l' uomo? Non certamente l' uomo da solo, perché « l' istinto del cuore umano è incline al male fin dall' adolescenza» (Gn 8,21). Non basta auspicare l' avvento di nuove dottrine filosofiche o antropologiche, oppure pensare semplicemente a nuovi sistemi economici, per cambiare le sorti di questa umanità incatenata. C' è bisogno che l' uomo si riconosca immagine di Dio, di quel Dio che è Trinità, cioè Amore traboccante che genera distinzione, e nella distinzione comunicazione di amore e promozione dell' altro. Ecco allora che l' antiquato linguaggio di Maria a La Salette diviene grido profetico per l' uomo d' oggi: non c' è giustizia, non c' è amore, non c' è salvezza per l' uomo se non si passa attraverso il crogiolo della croce, simbolo per eccellenza del dono di amore totale per gli altri. L' invito a inoltrarsi nei sentieri tortuosi della penitenza, del silenzio, per nutrirsi della parola, è un invito a stare con Maria sotto la croce. E’ da questa prospettiva che il mondo viene assunto in un' ottica rivoluzionaria, perché lo si guarda con gli occhi del Crocifisso: non più i potenti, i ricchi... ma i poveri, gli abbandonati, i malati, i peccatori, in una parola gli ultimi. In tal senso, però, non ci si fa prossimo degli altri se non riconoscendosi « figli dispersi », bisognosi di essere radunati sotto l' influsso dello Spirito, nel tempio che è Gesù Cristo, sottomettendosi alla logica misericordiosa del Padre. Una nota spirituale essenziale emerge allora per chi si lascia guidare dalla Vergine apparsa a La Salette: manifestare il volto misericordioso di Dio attraverso lo sguardo, la parola, l' azione, seguendo l' esempio della « serva del Signore » che fu costituita riconciliatrice ai piedi della croce. Il missionario, il «convertito» da Nostra Signora de La Salette è l' uomo della compassione, l' uomo che fa sue « le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d' oggi » (GS 10). E’ l' uomo di cui non si può avere timore perché la sua solidarietà col mondo non è superficiale, ma affonda le sue radici nella fondamentale solidarietà di Cristo con l' umanità di quel Cristo Gesù che, « pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini » (Fil 2,5-7).In una parola, La Salette è segno ovvio della misericordia accogliente di Dio. Una sentenza rabbinica afferma: « Chi è misericordioso verso le creature è di sicuro della stirpe di Abramo. Chi invece non è misericordioso verso le creature, non è di sicuro della stirpe di Abramo». In Gesù la misericordia riversata su Abramo si è fatta carne essa stessa, progetto storico (ed eterno) di unità e di fraternità. E Maria, nella quale la comunità cristiana stessa si riconosce, dice di lui: « Fate quello che vi dirà » (Gv 2,5).

 

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